Restoration Conversation Spring 2024 | Linda Falcone

Calliope Arts Restoration Conversation

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L’artista italiana Ilaria Margutti ha abbandonato i suoi pennelli per ago e filo diciassette anni fa. Con la sua serie di opere in tessuto The Swan Variables, in mostra fino all’8 giugno presso l’esposizione Women of the Stars a Firenze, Margutti si ispira all’astronoma statunitense Henrietta Leavitt, ricamando il suo viaggio verso le stelle.

Restoration Conversations: Fino al 2007 ti consideravi una pittrice, ma ora il ricamo è la tua forma espressiva preferita. Per cominciare, cosa puoi dirci del ricamo come arte tradizionale?

Ilaria Margutti: Per generazioni, le donne ricamavano insieme, e il loro cerchio era un luogo di ascolto, dove si trasmettevano lezioni. Queste donne esploravano miti, raccontavano fiabe e condividevano esperienze di vita. Il cerchio del ricamo era un luogo educativo, dove le giovani venivano istruite oralmente, un processo che è durato dall’antichità fino al movimento di liberazione delle donne. In Italia, fino a circa 50 anni fa, le ragazze imparavano a ricamare a scuola.

Nella generazione di mia nonna, le suore insegnavano questa tecnica rigorosa, e inizialmente la vedevo come una competenza priva di creatività. Poiché le donne ricamavano nei conventi o in famiglia, senza viaggiare, lo vedevo come un’attività che avrebbe limitato la mia emancipazione.

Il mio punto di vista è cambiato! Ora approccio il ricamo da una prospettiva non convenzionale. Con il mio lavoro, cerco di trasmettere una visione femminile, partendo da un’attività tradizionalmente femminile, perché il ricamo fa parte dell’identità e dell’educazione storica delle donne, ma lo porto in un contesto contemporaneo.

RC: Come ti sei avvicinata a questo mestiere e come l’hai trasformato in arte?

IM: Mi sono sempre considerata una pittrice, fino a quando ho incontrato l’embroiderer Rosalba Pepi, dieci anni più grande di me. Lei mi ha introdotto al ricamo, che è ricco di simbolismo. L’ago e il filo uniscono. Sono usati per cucire ferite.

Creano bellezza su tessuti uniformi e ispirano opere dedicate all’identità femminile. Invece di scegliere la pittura o la fotografia, sviluppate prevalentemente dagli uomini, scelgo il ricamo, che ha una qualità femminile, e lo trasformo in progresso, un messaggio, un linguaggio… e persino una rivoluzione, perché il mio obiettivo non è creare qualcosa di decorativo.

RC: Nel tuo percorso artistico hai spesso ritratto donne creative attraverso il ricamo. Cosa puoi dirci della tua serie Mend of Me?

IM: Una delle mie prime serie ritraeva donne che posavano come se stessero ricamando i contorni dei loro volti e corpi. Queste erano donne reali: le mie amiche artiste – pittrici, poetesse e fotografe. Queste immagini di donne che “ricamano” se stesse mi hanno aiutato a riflettere sul ricamo non solo come tecnica, ma come linguaggio artistico. Comprende tutte quelle qualità tradizionalmente femminili del lavoro, dell’attesa, della capacità di ascolto e della capacità di accedere al proprio mondo interiore, affrontando così il mondo esterno. Come forma d’arte, coinvolge la tenacia e la resistenza necessarie per completare un’opera, anche quando apparentemente non serve a nulla, perché non è destinata al “consumo”. Il suo scopo è la meditazione, la concentrazione e l’esplorazione interiore.

RC: Qual è la storia dietro la serie The Swan Variables, in mostra all’esposizione *Women of the Sky*?

IM: Sono appassionata di fisica quantistica da molti anni e, di conseguenza, anche di astrofisica, perché tutto è fortemente interconnesso. Sono autodidatta in questo campo, attraverso pubblicazioni divulgative, perché non ho una formazione specifica in matematica. Cercavo un punto di incontro tra la fisica delle particelle e il ricamo, quando ho scoperto la storia di Henrietta Leavitt, grazie a un libro di George Johnson intitolato *Miss Leavitt’s Stars*. Henrietta Swan Leavitt (1868-1921) faceva parte di un gruppo di “calcolatrici umane”, per lo più donne, che lavoravano ad Harvard. Il compito di Henrietta era catalogare un particolare tipo di stelle, le Cefeidi, e i miei sette pannelli, *Variables of the Swan*, sono un tributo al suo lavoro.

RC: Perché trovi così toccante il lavoro di Leavitt?

IM: Sul sito dell’Università di Harvard, ho trovato i quaderni, i registri e i rapporti della Leavitt. Nel suo registro più grande ha catalogato 1.777 stelle. Credo che il numero sette non sia un caso. Il numero sette simboleggia trasformazione, passaggio e metamorfosi. La catalogazione è un lavoro meticoloso che richiede una dedizione incredibile, fede nella scienza e, soprattutto, la capacità di restare ore immerse nei dettagli delle lastre. Era come se Leavitt stesse ricamando, senza sapere quanto sarebbe stato utile il suo lavoro. Ho pensato: “Questa donna ha toccato l’infinito con le sue dita!”

RC: Cosa dovremmo ricordare del lavoro di Leavitt?

IM: Grazie alle scoperte di Leavitt, il cielo è diventato tridimensionale! Non è più piatto, come un pezzo di stoffa teso. La catalogazione ripetitiva e quasi ossessiva di Henrietta è stata, alla fine, l’unico modo per vedere che la luminosità delle Cefeidi è ciclica. Le fotografie e le lastre negative che Leavitt studiava provenivano da periodi diversi, il che le ha permesso di esplorare e registrare i massimi e i minimi di luminosità di queste stelle, fornendo agli scienziati un metro di misura per calcolare la distanza tra le stelle.

L’astronomo americano Edwin Hubble ha applicato ciò che Leavitt ha imparato osservando le Cefeidi per determinare che la Nebulosa di Andromeda si trovava in un’altra galassia, oltre la Via Lattea. Era il 1933, non molti anni fa! La sua ricerca ha reso possibile calcolare la distanza di Andromeda dalla nostra galassia e confermare che l’universo è in costante espansione.