Pelle Muta | cataloghi inutili di esistenze | di Viviana Siviero
Raccolta di principi per un catalogo inutile di esperienze tattili
Testi di Viviana Siviero
Se ti tagliassero a pezzetti
il vento li raccoglierebbe
il regno dei ragni cucirebbe la pelle
e la luna tesserebbe i capelli e il viso
e il polline di Dio
di Dio il sorriso.
- Se ti tagliassero a pezzetti, Fabrizio De Andrè
Dalle tre Moire alla Bella Addormentata nel Bosco, percorrendo la Via della Seta: un viaggio senza fine, lungo il filo del sé.
di Viviana Siviero.
«Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata».
Jeorge Luis Borges, Funes della buona memoria, da Finzioni
La memoria è un elemento importante e celebrato. Ogni individuo tenta di raccogliere e custodire il maggior numero di ricordi possibili, perché la loro somma costituisce la morfologia della vita, che inevitabilmente è fatta di passato. Un’operazione squisitamente mentale quella della selezione dei ricordi, che pur avvenendo in automatico è profondamente importante.
Il corpo è, per definizione, la nostra parte visibile e quindi tangibile; quella componente carnale e fisica, tutta concretezza, che subisce visibilmente i segni dell’esperienza, inventariandone ogni traccia in tempo reale come fosse un catalogo infinito, costituito perlopiù da sintomi impercettibili. Solo alcuni vengono scelti dalla mente razionale per divenire ricordi, in base al picco di emozione generativa a cui sono legati, in positivo o in negativo. Il segno di una cicatrice resta sul corpo per sempre, ma senza la memoria del taglio, che passa attraverso il dolore, diviene una sorta di pagina scritta in una lingua incomprensibile. Ilaria Margutti è un’artista sensibile e profonda, la cui poetica si innesta in procedimenti complessi legati alla riaffermazione dell’io in un processo lento ed evolutivo che la porta a narrare del mondo e dei suoi abitanti più sensibili a partire dal sé. La tecnica che mette in gioco è altrettanto proteiforme, costituita da strati di pensiero, parola, pittura, ricamo e incollaggio di delicate garze che si dichiarano attraverso una tramatura definita. L’arte di Ilaria Margutti è fortemente emotiva e sgorga dall’interiorità: nonostante l’indipendenza che ogni opera dimostra in rispetto alle altre, ciascun lavoro, sia esso una tela, un libro ricamato o un’installazione, è da considerarsi come un tassello in un discorso più ampio, che si dipana come un sentiero lungo un filo, dove sono ben chiari sia il capo, sia la coda, ma dove le cose davvero importanti sono il cammino e la maturazione che si compie mentre lo si percorre.
Ilaria Margutti ha combinato il medium classico della pittura, praticata da sempre, con quello di uno strumento peculiarmente femminile, il ricamo. La simbiosi fra i due elementi avviene senza che l’uno soverchi l’altro, ma si compie piuttosto come l’amplesso di due amanti capaci di tagliare fuori dall’esistenza tutto ciò che non è coppia. Un sodalizio che inevitabilmente porta un prepotente dato simbolico, rappresentato dal filo che si fa trama, divenendo narrativo e provocando, conseguentemente l’emersione di tratti di memoria annegati che d’un tratto, trovano sulla carne la propria rappresentazione.
Di molto si potrebbe parlare attraverso il filo, simbolicamente dalla lunga tradizione e dalle molte implicazioni: un linea sottile e duttile che per questo ha possibilità potenzialmente illimitate di generare forme. Il filo è come una linea, una linea fisica che nella fantasia comune è sinonimo di molte cose a partire dalla direzione: si dice che lungo la Via della Seta, un filo rosso attraversi ininterrotto l’intero cammino, indicando poeticamente una rotta importante, che è stata vitale per diversi popoli. La trama narrativa prescelta dal filo di Ilaria, poggia fortemente su di una vigorosa significante simbolica ricca di riferimenti popolari: a partire dal celebre filo amoroso che permise a Teseo di uscire dal labirinto, giungendo al mito delle Moire greche (le Parche romane), passando per le favole tramandate nella tradizione popolare.
Ilaria Margutti armonizza quel rincorrersi di punti di cucito e pennellate, ben conscia della complessità simbolica che l’atto del ricamare porta in sé: per la mitologia greca nella mani delle Moire si svolgeva l’intera vita dell’essere umano e la sua maturazione verso l’età adulta. Ognuna di loro aveva un ruolo, ogni Moira era preludio dell’altra; esse non cuocevano torte, né avevano attività manageriali ma rispettivamente filavano, decidevano la lunghezza del filo (e quindi del destino) e infine lo tagliavano. Erano figlie della Giustizia e nemmeno gli Dei potevano modificare le loro decisioni. Le Moire venivano chiamate anche Fate (coloro cioè che presiedevano al fato): non è casuale la citazione della vicenda di Aurora (da alcuni chiamata Rosaspina) che a livello simbolico chiama in causa l’allusione alla tessitura del filo (sottintendendo la vita), come elemento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La Bella Addormentata nel bosco, attorniata da una serie di fate buone e crudeli, cade in un sonno eterno e statico proprio per essersi punta con un fuso, fino a quando l’incantesimo verrà spezzato affinché la vita dell’adolescente possa evolvere al gradino di maturazione successiva. Il filo, in procinto di essere tessuto, rappresenta un elemento metaforico antico e potente, saldamente legato all’evoluzione dell’individuo e al superamento dei propri limiti, in modo che esso possa assurgere al suo essere luminoso (l’individuo maturo).
La più recente produzione di Ilaria Margutti si può suddividere in quattro paragrafi distinti, ma collegati armonicamente:
- Il catalogo dei volti, che emergono dalla bidimensionalità della tela acquisendo fisicità grazie al gioco del filo lungo le linee, che oggettivizzano l’immagine rendendola fisica; il soggetto, dal canto suo, si vede costretto a tramare su se stesso, per raggiungere la piena comprensione dell’altro da sé.
- Il catalogo inutile delle esperienze tattili, prende spunto dalla riflessione di Jorge Luis Borges, secondo cui i ricordi infiniti, se archiviati, darebbero vita ad un inventario senza significato, perché mancante della debita distillazione critica. Questa serie è composta da libri dalle morbide pagine, in cui immagini e parole si alternano in una complessità materica del tutto simile alla vita. Ogni pagina è come un giorno che non vede il successivo né il precedente e si deve accontentare di speranza e memoria.
- Catalogo delle parole, in cui sono le parole a divenire immagine e successivo suono, perché chi le osserva non può fare altro che pronunciare quell’intreccio di fili: se nel catalogo inutile il corpo è un modo per percorrere la fisicità dell’individuo, le parole sono invece mezzo per percorrerne l’interiorità.
- Lo stare inutile,è costituito da un inventario di preziose piccole scatole, allineate ordinatamente dentro una teca, ognuna delle quali custodisce la simbologia sintetica dell’immagine di un pensiero: forma e corpo delle sensazioni, elementi che percepiamo ma che non hanno struttura tattile.
CATALOGO DEI MIEI VOLTI
La sua pelle è un panno bianco / ricucito da ghirigori di fili neri,/ molti spilli colorati / nel suo cuore son puntati. / Ha un bel paio di occhioni / che usa per intotolire
i ragazzoni./ In sua malia / ha molti intronati /uno persino in Algeria. / Eppure anche lei è preda /di un maleficio da superstrega, /un sortilegio che non può /spezzare: se qualcuno le /si avvicina gli spilli si /fanno spina e nel cuore / vanno ad affondare.
Tim Burton, La bambina Woodoo in Morte malinconica del bambino ostrica e altri racconti.
Un inventario di volti, in primo piano, che ripropongono sempre lo stesso modello di donna, variandone posa ed inquadratura, giocando nei toni del rosso. Ilaria Margutti riproduce se stessa perché solo provando le esperienze altrui sulla propria pelle è possibile comprendere pienamente la complessità della vita. Nella pratica quotidiana possiamo provare empatia nei confronti di un altro essere vivente, “mettendoci” nei suoi panni e andando nella direzione della comprensione più che in quella della pietà. Ilaria sceglie determinate pose perché ne sente la necessità al fine di una propria crescita personale: le sue sono rappresentazioni di vita che vengono riassunte in un unico colpo d’occhio e trasformano la figura prescelta in un corpo analitico. La trama della narrazione poi, emerge dall’unione ideale di tutti quei segni provocati dall’esperienza sull’epidermide, come nel gioco infantile in cui si devono unire puntini numerati.
Ilaria Margutti affronta ogni corpo come fosse una storia a sé e aiuta l’anima che lo abita a decifrarlo, sanandone le ferite attraverso un dialogo di traduzione che invece delle parole utilizza l’ago e il filo: l’artista rammenda le esistenze, prendendosi cura delle lacerazione che vengono ricucite e spesso abbellite da ricami. L’atto del tessere è collegato a quello generativo che si attua attraverso il filo, cioè il legame laddove l’ago rappresenta il mezzo espressivo. Quest’ultimo si infrange sulla pelle e duole, ma riannoda, sutura, arginando le perdite, ricordando che nessuna (ri)nascita avviene senza dolore.
L’artista percorre le spoglie di ogni personaggio prima intuito e poi conosciuto, a partire da se stessa, attraverso il concretizzarsi di un pensiero che ossessiona, fino a quando non lo si può più trattenere. Ognuno ha il proprio modo di esorcizzarlo: quello peculiare dell’artista diviene lezione universale e taumaturgica per chiunque abbia voglia di porsi in ascolto. Un filo che spesso diviene limite, meta da superare continuamente, per riacquistare un nuovo granello di consapevolezza. Per questo le opere della Margutti presentano delle modificazioni man mano che le differenti serie si alternano: la pittura vira col tempo, nei toni, nella delicatezza che si tramuta in forza e violenza; il ricamo si attua in maniera maggiormente segnica, abbandonando le dolcezze delle fioriture delicate sulle carni. L’oggi vede ricamature più simili ad una corda che strozza le carni, impedendo a tratti il fluire regolare del sangue nell’organismo vivente. Il risultato è una modificazione nel ritmo dell’individuo, che si palesa attraverso forzature evidenti delle pose, che non riferiscono di alcuna minaccia esterna. Il nemico da affrontare viene da dentro e l’artista lo affronta preparandogli un giaciglio di sovrapposizioni di pittura e garza:
CATALOGO INUTILE DI ESISTENZE TATTILI
I due progetti che ho detto ( un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico canepotesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma.
Jeorge Luis Borges, Funes o della memoria, da Finzioni
I ricordi infiniti, se archiviati, darebbero vita ad un inventario senza significato, perché mancante di una opportuna.Ilaria Margutti ha creato una biblioteca di Babele in cui le pagine dei libri sono dipinte e ricamate con tratti di carni parlanti e parole dalla fisicità tangibile. Il corpo è il centro di queste opere sfogliabili, di una bellezza incantevole e si manifesta come luogo dell’intuizione poetica, in contrapposizione con la mente, dimora del rigore logico: non a caso è nel corpo che dimora la simbologia dell’irrazionale, il cuore, mentre i ricordi e il pensiero razionale sono regolari dalle sinapsi. Il cervello umano possiede capacità sconfinate di catalogazione dei ricordi, ma è abbastanza saggio da sapere quanto sia importante dimenticare, non solo le cose brutte ma spesso anche quelle belle, soprattutto quelle inutili.
La pelle di un corpo è come la spiaggia sconfinata in riva all’oceano in cui si infrangono le esperienze che la modificano continuamente. Cosa saremmo se potessimo ricordare ogni singolo istante delle nostre esistenze? Jorge Luis Borges, in uno dei suoi racconti brevi, ha immaginato che il suo personaggio, Ireneo Funes, fosse dotato di una memoria eccezionale, capace di non dimenticare nulla. Un dono che si manifesta chiaramente e fin da subito più come croce che come delizia, facendo maturare immediatamente una serie di riflessioni sull’importanza di poter distillare i ricordi attraverso la selezione.
«Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battagli di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata[1]».
Non essendo dotata di voce sonora, noi crediamo che la pelle sia muta: semplicemente si tratta di una superficie corruttibile e per questo mutevole, la somma delle pagine di un diario infinito che segna minuziosamente ogni esperienza con un proprio linguaggio personale e non alfabetico. Possiamo decidere di non imparare mai quella lingua fino a far diventare estraneo il nostro stesso corpo, oppure possiamo frustralo, ignorandolo, escludendo qualunque sua “parola” dal passaggio neuronale. Ilaria Margutti, attraverso la sua poetica,suggerisce di affrontare la nostra superficie inascoltata affinché possiamo renderci conto che l’oggettivizzazione di un’esperienza agisce come un unguento medicamentoso sulla nostra anima.
Il corpo si crea sotto la mano esperta della ricamatrice, che avverte sensazioni differenti rispetto a quelle della pittura: è la percezione a cambiare grazie a quel senso di responsabilità che scaturisce nei confronti del corpo.
La consapevolezza che il nostro tempo come corpo sia limitato, rende l’essere presente di ognuno nella propria vita una sorta di “dramma temporale”. Solo la pratica dei sensi è in grado di fornire la prova della nostra esistenza, motivo per cui lo sforzo dell’artista è teso a rendere le sue opere pittoriche usufruibili attraverso il tatto.
CATALOGO DELLE PAROLE
Un uomo labirintico non cerca mai la verità ma sempre e soltanto Arianna
Albert Camus, 1951
Mentre il catalogo delle esistenze tattili è legato ai corpi, al loro essere per sondarne la fisicità, il catalogo delle parole è il mezzo per esplorare l’interiorità. Queste opere nello specifico nascono dai ricordi di persone conosciute, che hanno deciso di condividere con l’artista un piccolo pezzettino di sé: un racconto o una fotografia, un disegno o la pagina di un diario, un circo timido di emozione personali che si tramutano in opera poetica ed universale. Anche in questo caso solo la fisicità può rendere tangibile l’esistenza corporea, quindi le lettere vengono ripassate col ricamo mantenendosi fedeli alla calligrafia originale, che resta l’unico vero legame con l’elemento surgivo.Questi brevi ricordi passano così dall’universo puramente intangibile della sensazione a quello corporeo che è proprio della realtà.
Parole capaci di ricostruire ricordi poetici e significanti, poesie ritracciate col filo per rendere più corporeo il loro suono, solido il loro schiudersi nella pratica della vita. Il ricordo del corpo e delle sue esperienze, senza il filtro soggettivo della sfera mentale, è divenuto un susseguirsi di riquadri concreti, in cui l’alternarsi di forme e di parole dà vita ad un vero e proprio alfabeto braille per l’anima, un vero e proprio catalogo del tangibile. Ilaria Margutti è consapevole della storia del filo ma soprattutto della sua pratica, che necessita di un fare immerso nella pazienza e della stessa perizia della pittura: entrambe le azioni rappresentano un’immersione nel tempo del silenzio, dove l’errore costringe a disfare e le forme emergono un frammento alla volta. Un lavoro che si compie del tutto nello spazio compreso fra il palmo di una mano e gli occhi. Uno spazio infinito che dimostra tutte le sue possibilità, non soltanto geografiche ma soprattutto spirituali.
LO STARE INUTILE
Non credere che brilli / la vita della Regina Puntaspilli./ Quando siede sul trono / di ogni spillo sente il suono.
Tim Burton Morte malinconica del bambino ostrica e altri racconti
A chiudere idealmente questo inventario sensibile di pensieri è un’installazione composta di una serie preziose scatoline di metallo, ricomposte in una teca, ognuna delle quali contiene un piccolo tesoro dal compito vitale: dare forma e corpo alle sensazioni, riassumendole in un colpo d’occhio efficace ed immediato. Insonnia, attesa, allontanamento, paura, gioia elettrizzante, sono tutti elementi che percepiamo in maniera fisica, eppure mai in maniera tattile. Qui, come nel caso dei ricordi precedenti, la loro catalogazione diviene inutile proprio perché infinita e soggetta a milioni di variabili: le sensazioni sono soggettive e non c’è modo di sapere se il dolore o la gioia come li prova un individuo sia uguale rispetto ad un vicino d’esperienza. Ma ogni essere vivente sente la necessità di catalogare, perché questo gli trasmette una sensazione di controllo. E nonostante tutto, ciò che lasciamo dietro la nostra caducità, altro non è se non un archivio de esistenze. Ilaria Margutti come una novella Penelope, impiega incessantemente l’arte del ricamo non come scusa per ingannare una situazione, ma come strumento per lasciare spazio al proprio tempo, affinché si possa manifestare. Il suo è un lavoro di indagine fortemente carnale. Il corpo fisico infatti rappresenta l’unica prova oggettiva e tangibile dell’esistenza, vissuta in rispetto ai sensi responsabili della percezione del sé. Il percorso artistico della Margutti ha visto avvicendarsi i progetti di differenti riflessioni: in principio l’indagine dell’esistenza interiore esplorata in senso antropologico si è spostata dall’autoritratto al ritratto di coloro che accettavano di donarsi all’artista attraverso le proprie ferite, che venivano rammendate nel ritratto come in una sorta di operazione simbolico-taumaturgica. Così la fisicità del ricamo rendeva tangibili i ricordi, facendoli divenire tattili. Lo stesso è per le sensazioni, che si concretizzano per assemblaggio di oggetti reali, divenendo messaggio simbolico attraverso l’eliminazione di qualunque tipo di rappresentazione. Così le sensazioni diventano corpo, dall’esistenza oggettiva e non soggettiva. Per questo Ilaria Margutti può essere definita burattinaia, in un gioco di tracce consistenti, che permettono di rendere tattili i ricordi. Esaurita la catarsi di sofferenze fatta propria per poter esprimere concretamente il circostante non manifesto, il percorso dell’artista ha modificato la propria direzione, rivolgendosi anche al sogno e ai suoi residui materici. È l’esistenza il centro poetico di questa artista meticolosa, che si esprime per estrema necessità creativa, conscia del fatto che, anche se addormentati, noi continuiamo ad esistere.
[1]Jeorge Luis Borges, Funes della buona memoria, da Finzioni