Nello studio di Ilaria Margutti | di Gabriele Landi
NELLO STUDIO DI ILARIA MARGUTTI
Intervista di Gabriele Landi
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Chiedere agli artisti di lasciarti uno spazio di narrazione riguardo al proprio studio, trovo sia un vero gesto di premura e di ascolto, perché è la fucina nella quale prendono corpo le idee, le sperimentazioni, le gioie e i fallimenti, di un percorso che non fa solo parte dell’opera, ma della vita stessa di ogni artista.
Lo studio d’artista, non è semplicemente un luogo che ti permette di stare, ma è un incontro, un riconoscimento, è quello spazio che non chiedeva altro di incontrarti.
Una mia amica, quando venne nel mio studio per la prima volta, mi disse che si sentiva come se fosse entrata in un ventre, percepiva lo spazio di ricerca come un luogo sacro, come un laboratorio di alchimia, dove le cose accadono, ma non tutte saranno poi messe al mondo, dove il turbinio dei pensieri e dei gesti, si intrecciano con le storie in esso racchiuse, un dialogo tra passato e presente, come se non esistessero distanze.
Gli studi d’artista sono concentrati di esistenze che accompagnano e influenzano l’evoluzione del processo creativo.
A me è successo due volte e infatti ora sono divisa tra due luoghi e, in entrambi i casi, sono loro che hanno scelto me.
Sto assediando il primo studio dal lontano 1998, è un fondo che si trova ai margini del centro storico di Sansepolcro, un cosiddetto “casa e bottega”, non è molto grande, ma quando lo presi, era decisamente alla mia portata economica. Per la mia età di allora e per le mie possibilità, per me era una reggia.
In passato è stato un forno, nella mia via ormai sono pochi quelli rimasti che si ricordano dei vari utilizzi di questo fondo. C’è ancora la traccia della canna fumaria, un pezzo del vecchio pavimento anni 50 e il muro di pietra che emerge in qualche punto dall’intonaco. È molto luminoso e si affaccia direttamente sulla via, così i miei vicini conoscono bene i miei orari di lavoro. La sua caratteristica migliore è che d’estate è così fresco da permettermi di lavorare più a lungo.
Ha cambiato anima più volte, perchè all’inizio lo avevo diviso in due parti, da una ci tenevo il laboratorio di restauro, mentre dall’altra ci dipingevo, poi quando ho iniziato a insegnare e successivamente a ricamare, abbandonando completamente la pittura, si è adattato alle mie nuove esigenze, ma soprattutto ora è dedicato esclusivamente alla mia ricerca artistica.
Ho pensato di lasciarlo un paio di volte, perché lo spazio limitato non mi permetteva di pensare opere grandi, del resto come è chiaro, sono le idee che si adattano allo spazio e non il contrario.
Come ogni studio è pieno di oggetti e cianfrusaglie di quelle che raccogli perchè “prima o poi ti potrebbero servire” e in effetti in parte è così, le cose che abitano gli spazi anche se non le usi, influenzano i tuoi percorsi, sono sotto i tuoi occhi anche se non le guardi e la ricerca si impregna dell’energia che vive e si trasforma intorno a te durante il lavoro. Allora anche se quegli oggetti non li userai mai, fanno parte comunque del tuo discorso. Tentare di liberarsene è impossibile, l’unica è cercare di raccoglierne meno.
Nel 2013 sono entrata per la prima volta nelle stanze abbandonate di Palazzo Muglioni, piene di polvere, di finestre rotte, pavimenti non finiti e macerie sparse ovunque. Un palazzo nel pieno centro storico di Sansepolcro, proprio accanto al museo Civico, nel quale sono conservati la Resurrezione e il Polittico della Misericordia di Piero della Francesca.
Descrivo sempre il nostro incontro come una chiamata, perché per come era messo, nessuno poteva scommetterci una cicca che un giorno il Palazzo sarebbe tornato in vita, nemmeno io in realtà, ma ai colpi di fulmine, non è possibile sottrarsi. È stato abbandonato per quasi 30 anni, solo nel 1998 vennero fatti dei lavori di consolidamento dovuti ai danni del terremoto del ‘97 che lo avevano reso pericolante, ma questi rimasero in parte incompleti nell’aspetto interno e non gli venne data nessuna funzione; dal 1986 al 2013, un palazzo nobiliare del 1536 di più di 1000 mq, cadde nel dimenticatoio. Per questo mi piace pensare che quel palazzo stava aspettando me, anche io stavo aspettando di incontrarlo, ma non lo sapevo.
Ebbi il permesso dell’amministrazione di allora, di poter provare a fare delle azioni culturali che potessero sensibilizzare la cittadinanza al suo recupero e così pensai di coinvolgere prima di tutti i miei studenti, che vennero con me a pulirlo e a predisporlo per farci entrare la gente.
Il palazzo è diviso su due piani, il primo è chiaramente quello più nobile, ancora ci sono gli stucchi seicenteschi rimaneggiati e ridipinti e le stanze conservano l’assetto tipico cinquecentesco, con le volte in canniccio e porte e finestre con cornici strombate. Il secondo piano è stato così modificato che non ha più nessun riferimento architettonico originale, ma conserva un dominante fascino dell’abbandono.
Questo luogo dimenticato, non solo ha suscitato entusiasmo e voglia di darsi da fare ai miei giovani allievi, ma soprattutto quello su cui riflettevamo e ancora riflettiamo, è che tutto questo “non finito”, ci permette di alimentare l’immaginazione, lì dentro tutto è possibile, perché non c’è niente! È un vuoto fertile, che si lascia fare tutto ciò che possiamo immaginare.
Questa cosa dei muri scrostati, della polvere posata sulle pareti che forma macchie da interpretare come fossero nuvole, dei pavimenti polverosi in cemento, delle finestre mancanti che facevano entrare l’aria creando un suono come un eco al suo interno, degli oggetti ritrovati provenienti da chissà quale tempo, della lettera d’amore nascosta dietro un termosifone… insomma tutte queste cose così, tra la scoperta e la meraviglia, mi hanno permesso di coinvolgere classi intere di ragazzi e ragazze per tre anni in modo che insieme, ci potessimo prendere cura del nostro posto “segreto”.
Per tre anni abbiamo realizzato mostre, concerti, performance tutto grazie a un movimento spontaneo che si era creato, ma mi era chiaro che quell’energia non poteva bastare a salvarlo, la situazione era così fragile e totalmente improbabile la sua continuità. Nei primi tre anni di convivenza con Palazzo Muglioni, ho iniziato a fare delle ricerche sulla sua storia. In un andirivieni tra archivio e biblioteca, non è molto quello che sono riuscita a raccogliere. Certo è che il palazzo ha origini medievali, poi è stato ricostruito a metà del ‘500 e i discendenti della famiglia Muglioni, hanno avuto ruoli importanti anche nell’amministrazione del paese.
Ma ciò che mi ha trasportata completamente nella sua storia, è stata la scoperta dell’esistenza di una donna, ultima erede della famiglia che ormai alla fine del 1800 non aveva più le doti di un tempo.
Lei si chiamava Minerva Muglioni, nobildonna colta e amante dell’arte, che all’età di 26 anni, sposò Silvio Buitoni, uno dei figli della terza generazione della famosa famiglia della pasta Buitoni, sì perché il primo pastificio industriale in Italia, è nato tra il 1827/28, proprio nei fondi di Palazzo Muglioni! Silvio era più grande di lei di 20 anni e aveva già un matrimonio alle spalle e tre figli maschi. È chiaro che la loro unione era puramente di interessi, lei che poteva rientrare a palazzo e condurre una vita sociale di pregio e lui che avrebbe potuto acquisire il titolo nobiliare.
Dopo il matrimonio, Minerva e Silvio, vanno ad abitare in una parte di Palazzo Muglioni, dove la stessa Minerva teneva dei salotti culturali, fino al 1911, anno in cui si suicidò. Aveva 36 anni. Il motivo del suo suicidio è molto comlpesso, ma qualche anno dopo la sua morte, Palazzo Muglioni passò interamente nelle proprietà della Provincia di Arezzo e divenne la sede dei Carabinieri.
Nel 1944 per circa un paio di mesi, le stalle del palazzo furono anche il comando dei giovani partigiani biturgensi che liberarono il paese prima dell’arrivo delle truppe inglesi, scongiurando il bombardamento della città, poi anche i Carabinieri lasciarono il posto e per 6 anni il Palazzo fu usato come scuola media, fino al 1986, dove è iniziata la mia storia.
Oggi Palazzo Muglioni si chiama “CasermArcheologica Luogo Utopie possibili” e me ne prendo cura insieme a Laura Caruso, senza di lei nulla di ciò che è adesso sarebbe stato pensabile.
Grazie alla forza travolgente di Laura che insieme a me, ha saputo guardare oltre le macerie, Caserma è un luogo che si prende cura dell’arte e degli artisti che ospitiamo e ora, una parte delle stanze al piano superiore, le abbiamo destinate al mio studio, potrei dire “Atelier”, visto che ci tengo in esposizione le opere finite, ma questo luogo è un corpo così complesso e vivente, che mi sento una semplice ospite.
Minerva c’è ancora tra le sue stanze, lei è tornata a condurre i suoi salotti culturali.
Dopo tanti anni dedicati alla vita militare, oggi Caserma è il contenitore poetico dell’immaginario artistico e di tante altre cose meravigliose che accadono.
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