La Filigrana del corpo di Paolo Fichera
La filigrana del corpo
L’ago e il filo; l’entrare e l’uscire: sono un atto primario e come insegna Emilio Villa “l’atto ripetuto, intensificato, si istituisce in rito e conseguentemente in culto”; un rito che non ricerca un’identità attraverso un atto liberatorio, ma che cambia a ogni filo immesso a ogni nodo stretto, rafforzandosi senza adattarsi. Ilaria Margutti sa che i ricami sulle tele sono le ferite dei teli e dei corpi. Ferite che ci costringono ad altri movimenti, altre azioni, ad altre scoperte di sé. Non un ricamo inteso come guarigione, ma come un’altra possibilità. Così come nella perdita.La mancanza di una persona è un’altra persona. La mancanza di un corpo è un altro corpo. La tela è: liberarsi dalla perdita per essere perdita. Sottrarre se stessi per tornare a essere complessi. Ma senza l’edificazione di una propria identità: fuori dalla parola nella parola; fuori dalla pelle nella pelle; fuori dalla voce nella voce.
La sindone-telo diventa ciò che è: una perdita che rimane. La mancanza del corpo fisico nelle sindoni dà vita all’opera che è data dal corpo che non c’è, ma che compare sulla tela. E i ricami che tracciano la tela sono raccolti dalla tela-tesa e la fecondano e fecondano gli occhi di chi li guarda. I ricami sono tese che raccolgono. Non segni esposti, ma catalizzatori. Sono setacci dei nostri sguardi.
Ilaria Margutti ci insegna che l’occhio vive di quel che ha abbandonato. L’occhio di chi ha creato e l’occhio di chi osserva. Perché alla fine di tutto siamo noi stessi tele. Con addosso – ma nella loro perdita – i segni di chi abbiamo abbandonato o perso; o meglio: con addosso quello che di noi abbiamo abbandonato. Infatti ogni tela è l’immagine di un martirio, di un martire che l’etimologia vuole significhi: testimone. È la testimonianza dell’ultima perdita, ma che era già perdita prima di compiersi nell’atto della sua rappresentazione. È l’inconsapevolezza e l’assenza di volontà perché: quel che sarà altro lo è già. E se resurrezione ci deve essere è nel qui e ora. Nell’essere creatura senza trascendenza. Una tela che tace nel suo sangue, che respira il suo aldilà ora.
La tela è un crepaccio. E il crepaccio è la distanza che non ci cuce, il labbro tagliato in origine che nessun filo può suturare. Le parole che attraversano i nostri corpi sono quei fili che non cuciono, le parole sono la pelle con i suoi segni. Non il Compiuto, ma la metamorfosi è il taglio – che è già nella ferita prima della ferita.
Uscendo da una mostra di Ilaria Margutti si sa – o si intuisce: poco importa se con piena consapevolezza – che quello che si perde è quello che resta. I corpi reali dei visitatori divengono essi stessi i luoghi delle tracce, sindoni in carne e ossa, tracciate, eppure libere, eppure ricamate dai segni visti e ora impressi: come la filigrana su un corpo.