Intervista Ilaria Margutti per Artemorbida IT/EN
INTERVISTA CON ILARIA MARGUTTI
di Maria Rosaria Roseo
Interview link in English version
Ilaria Margutti, artista e docente di storia dell’arte, vive e lavora a Sansepolcro. Diplomata all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ha esposto i suoi lavori in molte mostre in Italia e all’estero e ha colaborato con varie gallerie d’arte private.
Dal 2007, grazie anche all’incontro con una maestra di ricamo Rosalba Pepi, l’artista inizia ad inserire tale tecnica nei suoi dipinti ed è questo un momento fondamentale per il suo percorso artistico. Il ricamo le permetterà di esprimere pienamente la sua poetica.
Ilaria si dedica inoltre, a progetti per la diffusione dell’arte contemporanea ed ha curato “Incontri al Museo con l’Arte Contemporanea”, una rassegna di talk e mostre con artisti italiani, per un progetto in collaborazione con il Museo Civico di Sansepolcro.
Da alcuni anni, assieme a Laura caruso, è responsabile dello spazio CASERMARCHEOLOGICA per l’Arte Contemporanea, un progetto legato al recupero e riutilizzo di Palazzo Muglioni, ex Caserma dei Carabinieri di Sansepolcro.
Ilaria perché la tua scelta di artista è rivolta proprio al tessile come medium espressivo?
Ci puoi raccontare qualcosa della tua storia di artista?
È una domanda alla quale ogni volta mi viene da rispondere in modo diverso, perché il tempo che scorre dentro la mia vita, trasforma costantemente il modo in cui mi guardo al passato e ciò che ritenevo importante, ora non lo è più. Nel corso degli anni mi sono arricchita di congiunture incredibili, che prima non avrei mai potuto immaginare di poter aggiungere alla mia storia.
Le dinamiche della vita hanno bisogno di tempo per essere comprese e a volte ne impiegano così tanto da suscitarmi sempre una grande meraviglia quando arriva il momento della (ri)scoperta, e mi stupisco ogni volta, quasi come una bambina.
All’inizio ho seguito un sentimento che non avevo percezione di cosa fosse, sentivo che c’erano cose che volevo capire e imparare a conoscere; poi questo sentimento si è focalizzato in una identità, quella di sentirmi artista; oggi, a dire il vero non so più cosa significhi essere artista, mi sento solo di fare una cosa che amo, come quando ho iniziato, con la sola differenza che mi sento più consapevole della mia identità e non più quel germoglio informe e indeciso.
I miei studi sono sempre stati indirizzati a discipline artistiche e ho tessuto un vero e proprio corredo di cose che amo: insegno Storia dell’arte al Liceo Scientifico e mantengo viva la mia ricerca artistica, “cucendo” questi due “luoghi” dentro uno spazio che mette in relazione i miei studenti con il mondo dell’arte (Casermarcheologica).
Tra i tuoi lavori tessili, quale è quello che ti rappresenta di più e a cui ti senti più legata?
Le opere segnano le tappe della vita.
Ogni opera, o insieme di esse, è un punto di arrivo e di inizio, è una consapevolezza raggiunta che apre la strada ad altra ricerca.
Fino a un anno fa l’opera che mi rappresentava particolarmente è stata una tela che oggi non esiste più, perché ha subìto un grosso danno a causa dell’incuria di due operatori culturali che hanno permesso di farle prendere la muffa esponendola in un luogo insalubre.
Quell’opera ha preso un altro significato, ha dato altra forma al mio processo creativo e oggi sono altre le domande che mi pongo, ho già cambiato la mia direzione.
Pur sentendo ancora un dolore profondo per quella perdita (era una delle opere fondamentali per la struttura del mio percorso di allora), ho pensato che l’indagine sulla quale stavo lavorando, avesse bisogno di altro tempo per essere attraversata più profondamente.
Ci puoi parlare della serie Recto/Verso? Cosa rappresenta per te il retro della tela?
Quanto è affascinante il retro della tela?
È quella parte del lavoro che non posso dominare, perché si crea sulla scia di ciò che razionalmente vado ad eseguire.
Quello che accade dietro è un’altra storia, un’altra mappa che disegna territori inaspettati!
La mia esigenza è nata nel voler cercare di dare vita a ciò che c’è di più invisibile intorno a noi. Ancora più invisibile, oltremodo impensabile, perché di solito ciò che è dietro la tela, si tende a nasconderlo.
Invece è nell’errore, nell’imperfezione che si nascondono i luoghi più fertili della creazione e in questo mi sono venute in aiuto anche le teorie della fisica.
(penso appunto al libro di Guido Tonelli “La nascita imperfetta delle cose”)
C’è una citazione che amo usare in questo frangente, la scrive il fisico John David Brown sul suo libro “Le teorie del Tutto”.
“La natura è un bellissimo arazzo, del quale noi possiamo vedere solo il retro e, osservandone i fili lenti, proviamo a cercare di capire il disegno che sta davanti”.
Secondo te, è più importante la tecnica o l’idea? Cosa pensi che determini il successo di un’opera?
Penso che il successo di un’opera sia legato esclusivamente a quello che l’artista ritiene di aver raggiunto con l’opera stessa e non da quello che il pubblico riconosce in essa.
Credo che ci sia solo un modo per definire se un’opera sia buona o mediocre e questo certamente è insito a come l’artista ha saputo indagare l’argomento e a che profondità è riuscito a penetrarlo, a quanto si è sporcato le mani, a quanto si è trasformato e messo in gioco nell’addentrarsi nell’ignoto che ha scelto di attraversare.
Questo è riconoscibile da tutti, indipendentemente dai propri gusti personali: se un’opera è vera, ci trasforma.
Riguardo invece alla prima parte della tua domanda, che richiederebbe una riflessione molto più complessa, sarei più propensa a dire che l’idea non esiste, ma esiste un percorso, un viaggio di conoscenza, un’esperienza, un sintomo vitale di esplorazione, di indagine per espandere i propri confini.
Non credo che esista una direzione sbagliata o più giusta di altre, credo solo che la tecnica sia uno strumento che si affina per dar modo alla nostra indagine di arrivare nelle più remote profondità del viaggio.
Improvvisazione, casualità, sperimentazione, studio, regole, progettazione. Quale, tra questi aspetti ha un ruolo irrinunciabile o prevalente, nel processo di nascita di una tua opera?
Mi serve tutto.
Sicuramente parto da una esigenza di indagine, da una domanda che diventa un progetto per dare ordine ai pensieri, poi passo alla sperimentazione che è alla base, perché sperimentando si sbaglia e si scopre.
La casualità quindi è una componente della sperimentazione, ma poi diventa la forma del pensiero.
Sembrerebbe una ricetta, o forse lo è, poi ognuno aggiunge gli ingredienti che preferisce e che sperimentando, sceglie.
Nei tuoi lavori usi il colore con una certa “parsimonia”. Ci puoi spiegare le motivazioni di questa tua scelta?
Si si, ho il terrore che le mie opere diventino degli arcobaleni.
Non ho nulla contro gli arcobaleni, figuriamoci.
Quando dipingevo, prima di dedicarmi al ricamo, i miei quadri erano molto espressivi e il colore e la materia pittorica, prevalevano su tutto.
Ora ho bisogno di pulizia, di invisibile, di trascendente. È come se volessi pulirmi gli occhi da tutta questa “sporcizia” visiva che nell’epoca dei social ci sta inquinando lo sguardo, ci sta comprimendo e paralizzando… Spesso sono tentata di ricamare solo bianco su bianco, o di usare i toni chiari del naturale… ma mi rendo conto che sono ancora molto legata alla figura, alle forme sinuose e morbide delle ramificazioni che si espandono oltre il confine del corpo, al sangue come elemento del flusso della vita …
Che significato ha per te il “gesto del ricamare” che credo abbia un ruolo essenziale nelle tue opere, non solo in quanto tecnica di elezione, ma proprio per il concetto a cui rimanda?
Come ho accennato prima, la mia formazione viene dalla pittura, che fino al 2007 ho pensato fosse la mia direzione primaria e il mio mezzo di indagine.
Poi è accaduto un incontro con una maestra di ricamo che mi ha permesso di cambiare il mio punto di vista e ribaltare tutte le mie convinzioni.
Ho ricominciato daccapo e ho imparato a ricamare, ma solo quanto basta per non essere una esperta del punto croce, piuttosto da permettermi di stravolgere i punti tradizionali e creare una mia cifra stilistica che fosse in sintonia con il mio viaggio di conoscenza (*mi riallaccio al discorso sulla tecnica che ho fatto più su).
Il ricamo mi ha fatto scoprire una dimensione nuova dell’atto creativo e questa scoperta ha influenzato il percorso, deviandolo verso altre direzioni.
Il tempo, il ritmo, la narrazione, il respiro, il rito.
Tutto questo si ricongiunge nel silenzio del filo che scorre tra dita e tessuto. È una rappacificazione che toglie un velo dagli occhi e poi un altro e un altro ancora, mano mano che eseguo e che concludo un’opera, tante opere.
L’esigenza di ritrovare questa dimensione, mi spinge a continuare a pormi domande che creano altre direzioni nel mio “operare”. Maria Lai, artista che amo da sempre, dice una cosa bellissima:
L’arte non dà risposte, ma indica direzioni.
Ecco quell’eterna voglia di ritrovarsi sospese tra terra e cielo, tra ritmo e tempo, tra mito e storia, in quel labirinto dal quale Teseo è uscito, lasciando Arianna sulle coste dell’isola di Nasso, innamorata e sola.
Quel vuoto denso che si costruisce lentamente, nel silenzio e nel dolore, che si intreccia e si dipana in ogni direzione pur di generare la vita. Qui dentro mi perdo e mi ritrovo ogni volta che mi siedo davanti al mio telaio e resto immobile per ore a ricamare.
Ilaria, quale è lo scopo del tuo lavoro? Mi spiego meglio. Qual’ è il messaggio, il concetto o il contenuto particolare che veicoli attraverso le tue opere, i materiali che usi e i soggetti che scegli?
La vita, il senso della bellezza, l’invisibile.
Il messaggio è il processo di indagine che lancio a me stessa, che qualcuno coglie e qualcun altro no.
E’ importante, a tuo parere, che lo spettatore comprenda i significati che l’artista vuole trasmettere con le sue opere? Ti interessa di più “essere capita” come artista o sei interessata anche a scoprire quali sono i contenuti dell’esperienza (assolutamente personale) che il tuo pubblico fa davanti ad una tua opera d’arte (magari distanziandosi anche molto dal tuo messaggio)?
Questa è una domanda delicata, ma cerco di rispondere sperando di non essere fraintesa.
L’opera è il prodotto finale di un’indagine che l’artista compie esplorando dentro a una sua esigenza, quello che accade prima è un processo di consapevolezza e di sperimentazione che il pubblico non vede, è l’invisibile che si nasconde dietro a un lavoro intenso che non può essere spiegato se non vivendolo in prima persona.
Se chi guarda un’opera fa lo sforzo di non fermarsi alla superficie dell’immagine, ma di mettersi in ascolto, allora riconoscerà qualcosa che dell’opera gli appartiene, qualcosa che appartiene all’artista e magari vedrà cose che l’artista stesso non aveva pensato, ma questo dipende dall’esperienza personale di ognuno di noi.
Più i nostri occhi sono “ricchi”, più sono abituati a indagare e più saranno in grado di leggere i codici invisibili che si nascondono dietro l’opera.
Se questo non avviene, allora accade che l’opera possa venire fraintesa, modellata ad altro e ovviamente snaturata.
Di sicuro l’artista non può impedire che chi guarda il suo lavoro, ci appenda cose che egli non abbia voluto innescare, ma esiste un modo di guardare e di ascoltare.
In questa epoca di post verità, fake news, e risposte compulsive e dispregiative che ogni giorno si gettano nei social network, siamo sicuri di essere abbastanza allenati all’ascolto, allo sguardo e alla dimensione del silenzio?
Io credo di no, o non abbastanza, perché è faticoso, più faticoso di come qualsiasi racconto ce lo potrà mai narrare.
Ci puoi parlare della tua serie “Il filo dell’Imperfetto”? Si tratta di opere di circa dieci anni fa. Come è cambiato il tuo lavoro da allora ad oggi?
L’imperfezione è ciò che ci rende unici, esclusivi e soprattutto ci permette di riflettere su di noi, partendo proprio da quel punto di rottura che ci rende imperfetti.
In quella serie ho rammendato metaforicamente delle ferite di altre persone.
Ho incontrato, parlato e condiviso un dolore con i soggetti che ho ritratto in questa serie e attraverso la loro esperienza, abbiamo compiuto assieme un percorso di guarigione.
Le cicatrici sono dunque diventate dei merletti, dei rammendi preziosi che si dipanano sulla pelle/tela e si mostrano senza paura allo sguardo dello spettatore.
Il filo ci rammenta che il dolore si può trasformare e che la bellezza si nasconde dentro un processo complesso e invisibile di attraversamento vissuto profondamente, fino in fondo.
Il filo rammenda e insegna l’attesa.
Non è semplice mettersi in ascolto e farsi attraversare dal dolore degli altri, ricordo che dopo le interviste avevo bisogno di tempo di decompressione perché alcune storie erano davvero molto forti, però quando ho iniziato a ricamare quelle ferite, sentivo che anche io mi stavo trasformando, mi stavo immedesimando e allo stesso tempo mi distaccavo per non farmi schiacciare da tutta quella responsabilità di sentirmi custode di un dolore altrui.
Quando mi dicono che le mie opere sono dolorose e angoscianti, rispondo che non parlano di dolore, ma di guarigione e se uno ci vede del dolore, significa che deve lui stesso guarire da qualcosa che non ha saputo superare fino in fondo.
Oggi il mio lavoro sta seguendo un’altra direzione cerco di lasciare sempre più spazio all’invisibile.
Per questo mi interessa il retro della tela, la scrittura, a volte la performance e sto eliminando sempre di più il colore.
A cosa stai lavorando in questo periodo?
L’ultimo lavoro che ho realizzato, si intitola “Sühne” per la mostra “Segrete, tracce di Memoria” a cura di Virginia Monteverde presso le prigioni di Palazzo Ducale di Genova, nel quale ho ricamato a mano 250 cm di scrittura su un lenzuolo antico.
Il ricamo che ho realizzato è in parte l’esito di una performance che ho tenuto a Casermarcheologica per tre settimane consecutive, in cui ogni giorno mi recavo per circa tre ore per ricamare brani di diari di persone a me care.
Alla fine delle tre settimane avevo ricamato 150 cm di stoffa, praticamente circa 10 cm al giorno.
Ho voluto dedicare questa opera a Etty Hillesum, la quale nei due anni precedenti al trasferimento al campo di concentramento di Auschwitz, è riuscita a scrivere un diario di una bellezza profondamente intensa.
È un diario nel quale Etty, riesce a narrarsi per non lasciare che le venga tolta anche la sua parte più umana, intima e profonda, ogni giorno sempre più annullata dalla devastazione di ciò che viveva nella reclusione da deportata.
Un inno alla vita, che ci insegna quanto sia importante difendere l’invisibile delle cose che sono in noi.
Per approfondire: https://www.ilariamargutti.com/works/suhne/
Ci puoi parlare del progetto “Casermarcheologica”? Come nasce e come si sta sviluppando?
Questa è una storia che vivo come una delle mie tessiture, ma sta avvenendo dentro un luogo che è fatto di persone, di relazioni, di amicizie, di Arte e di territorio.
CasermArcheologica ed è un processo di rigenerazione urbana che è iniziato nel 2013.
È un luogo abbandonato nel mezzo del centro storico di Sansepolcro accanto al Museo Civico nel quale è conservata la Resurrezione di Piero della Francesca, un palazzo cinquecentesco appartenuto a una nobile famiglia biturgense, ora del tutto scomparsa.
Assieme ad alcuni miei studenti dell’epoca, passammo le vacanze di Pasqua a ripulire le sale del palazzo dalla polvere e dalle macerie.
Da quel momento non sono più riuscita ad abbandonare quel palazzo e, nel 2016, grazie al contributo professionale della mia collega e amica Laura Caruso, abbiamo vinto il Bando Culturability, finanziato dalla Fondazione Unipolis, che ci ha permesso di continuare a portare avanti questa bella energia che si era sviluppata spontaneamente, dal basso, dai cittadini, dalle persone e dai miei giovani studenti.
Oggi Casermarcheologica è:
- il primo spazio espositivo e laboratoriale in Valtiberina dedicato ai linguaggi delle arti contemporanee, attraverso percorsi di co-creazione condivisi con gli artisti, i ragazzi e i professionisti culturali del territorio, in continuo scambio con la cittadinanza.
- Un co-working, dedicato a giovani professionisti che possono avere un luogo di lavoro in un contesto di collaborazione e sostegno progettuale.
- Formazione, continuativa e permanete, per immettere nuove competenze e per favorire un proficuo scambio di saperi.
In questo contesto, Casermarcheologica è stata selezionata tra le varie realtà di rigenerazione delle aree interne degli Appennini da Mario Cucinella, all’interno di Arcipelago Italia, per la sedicesima Biennale di architettura di Venezia nel Padiglione Italia. Un traguardo importantissimo per noi, perché ci indica che la direzione che abbiamo intrapreso, è quella giusta.
A me piace pensare che questo progetto sia molto affine al mio lavoro di artista tessile, perché anche Caserma è tenuta assieme da un filo che si intreccia con il tempo, la vita, le persone e la narrazione.
ENGLISH VERSION
This post is also available in: Italiano (Italian)
Ilaria Margutti ritratta durante la performance relativa alla sua opera “Sühne”
Ilaria Margutti, artist and teacher of drawing and art history, lives and works in Sansepolcro. Graduated from the Academy of Fine Arts in Florence, she has exhibited her work in many exhibitions in Italy and abroad and has collaborated with various private art galleries.
Since 2007, thanks to the meeting with the embroidery teacher Rosalba Pepi, the artist began to include this technique in his paintings and this is a key moment for his artistic career. The embroidery will allow her to fully express her poetics.
Ilaria has also dedicated herself to projects for the diffusion of contemporary art and has curated “Incontri al Museo con l’ArteContemporanea”, a series of talks and exhibitions with Italian artists, for a project in collaboration with the Museo Civico di Sansepolcro.
For some years now, together with Laura Caruso, she has been in charge of the CASERMARCHEOLOGICA space for Contemporary Art, a project linked to the recovery and reuse of Palazzo Muglioni, the former Carabinieri barracks in Sansepolcro.
Ilaria, why is your choice of artist aimed precisely at textiles as an expressive medium?
Can you tell us something about your history as an artist?
It is a question to which each time I have to answer in a different way, because the time that flows through my life, constantly transforms the way I look at the past and what I thought was important, now it is not. Over the years I have enriched myself with incredible experiences, which I could never have imagined before that I could add to my story.
The dynamics of life need time to be understood and sometimes they take so long to arouse a great wonder when the time comes for (re)discovery, and I am amazed every time, almost like a child.
At first I followed an unknown feeling, I felt that there were things I wanted to understand and learn to know; then this feeling was focused on an identity, that of feeling like an artist; today, to tell the truth, I no longer know what it means to be an artist, I just feel like doing something I love, like when I started, with the only difference that I feel more aware of my identity.
My studies have always been addressed to artistic disciplines and I have woven a real set of things that I love: I teach Art History at the Scientific high school and I keep my artistic research alive, “sewing” these two “places” within a space that connects my students with the world of art (Casermarcheologica).
Among your textile works, which one is the one that represents you most and to which you feel most attached?
The works mark the stages of life.
Every work, or together of them, is a point of arrival and beginning, it is an awareness reached that opens the way to other research.
Until a year ago the work that particularly represented me was a canvas that no longer exists today, because it was damaged due to the carelessness of two cultural operators who allowed her to take the mold by exposing it in an unhealthy place.
That work has taken on another meaning, it has given another form to my creative process and today there are other questions that I ask myself, I have already changed my direction.
Even though I still feel a deep pain for that loss (it was one of the fundamental works of my path at the time), I thought that the investigation I was working on needed more time to be crossed more deeply.
Can you tell us about the series Recto/Verso? What does the back of the canvas represent for you?
How fascinating is the back of the canvas?
It is that part of the work that I cannot dominate, because it is created in the wake of what I rationally go to do.
What happens behind the canvas is another story, another map that draws unexpected territories!
My need was to give life to what is most invisible around us. Even more invisible, unthinkable, because usually what is behind the canvas, you tend to hide it.
Instead, it’s in the error, in the imperfection that the most fertile places of creation are hidden, and in this, the theories of physics have also come to my aid.
(I’m thinking of Guido Tonelli’s book “La nascita imperfetta delle cose”)
There is a quote that I love to use in this situation, the physicist John David Brown writes in his book “The Theories of Everything”.
“Nature is a beautiful tapestry, of which we can only see the back and, looking at its slow threads, we try to understand the drawing in front of us”.
In your opinion, is the technique or the idea more important? What do you think determines the success of an artwork?
I think that the success of an artwork is exclusively linked to what the artist thinks he has achieved with the work itself and not to what the public recognizes in it.
I think there is only one way to define whether a work is good or mediocre and this depends on how the artist has been able to investigate the subject and at what depth he has managed to penetrate it, how much he had dirty his hands, how much he has been transformed and put into play in penetrating the unknown that he has chosen to cross.
This is recognizable by everyone, regardless of their personal tastes: if a work is true, it transforms us.
As for the first part of your question, which would require a much more complex reflection, I would be more inclined to say that the idea does not exist, but there is a path, a journey of knowledge, an experience, a vital symptom of exploration, of investigation to expand its boundaries.
I don’t think that there is a wrong or more right direction than others, I just think that the technique is a tool that is refined to give way to our investigation to arrive in the most remote depths of the journey.
Improvisation, randomness, experimentation, study, rules, design. Which of these aspects has an essential or prevailing role in the process of the birth of your work?
I need everything.
Surely I start from a need for investigation, from a question that becomes a project to give order to the thoughts, then I move on to the experimentation that is the basis, because by experimenting you make mistakes and you discover.
Randomness is therefore a component of experimentation, but then it becomes the form of thought.
It would seem a recipe, or maybe it is, then everyone adds the ingredients they prefer and that choose while experimenting
You use color prudently in your work. Can you explain the reasons for your choice?
Yes, I am afraid that my artworks will become rainbows.
I have nothing against rainbows, let alone.
When I was painting, before dedicating myself to embroidery, my paintings were very expressive and the colour and the pictorial material prevailed over everything.
Now I need cleanliness, the invisible, the transcendent. It is as if I wanted to clean my eyes of all this visual “dirt” that in the social era is polluting our eyes, compressing and paralyzing us… Often I am tempted to embroider only white on white, or to use the light tones of the natural… but I realize that I am still very attached to the figure, to the sinuous and soft forms of the ramifications that expand beyond the confines of the body, to blood as an element of the flow of life …
What does the “embroidery gesture” mean to you, which I believe plays an essential role in your works, not only as a technique of choice, but precisely because of the concept to which it refers?
As I mentioned before, my training comes from painting, which until 2007 I thought was my primary direction and my means of investigation.
Then I met an embroidery teacher who allowed me to change my point of view and overturn all my convictions.
I started again and learned to embroider, but only enough not to be an expert of cross stitch, rather to allow me to distort the traditional stitches and create my own stylistic code that was in tune with my journey of knowledge (*me back to the discourse on the technique I did more above).
Embroidery made me discover a new dimension of the creative act and this discovery influenced the path, diverting it in other directions.
The time, the rhythm, the narration, the breath, the ritual.
All this is reunited in the silence of the thread that flows between the fingers and the fabric. It is a reconciliation that removes a veil from the eyes and then another and yet another, as I perform and conclude a work, many works.
The need to rediscover this dimension pushes me to continue asking myself questions that create other directions in my “work”. Maria Lai, an artist I have always loved, says something beautiful:
Art does not give answers, but indicates directions.
Here is that eternal desire to find oneself suspended between earth and sky, between rhythm and time, between myth and history, in that labyrinth from which Theseus came out, leaving Ariadne on the shores of the island of Naxos, in love and alone.
That dense void that is slowly built, in silence and pain, that intertwines and unfolds in every direction to generate life. In here I get lost and I find myself every time I sit in front of my loom and I stay still for hours embroidering.
Ilaria, what is the purpose of your work? Let me explain myself better. What is the message, the concept or the particular content that you convey through your works, the materials you use and the subjects you choose?
Life, the sense of beauty, the invisible.
The message is the process of investigation that I launch to myself, that someone catches and someone else doesn’t.
Is it important, in your opinion, that the spectator understands the meanings that the artist wants to convey with his works? Are you more interested in “being understood” as an artist or are you also interested in discovering what are the contents of the (absolutely personal) experience that your audience makes in front of your work of art (maybe even distancing itself a lot from your message)?
This is a delicate question, but I try to answer it hoping not to be misunderstood.
The work is the final product of an investigation that the artist carries out exploring within a need of his, what happens before is a process of awareness and experimentation that the public does not see, is the invisible that hides behind an intense work that can not be explained if not living it in the first person.
If the viewer makes the effort not to stop at the surface of the image, but to listen, then he will recognize something that belongs to the work, something that belongs to the artist and maybe see things that the artist himself had not thought, but this depends on the personal experience of each of us.
The richer our eyes are, the more they are used to investigating and the more they will be able to read what lies behind the work.
If this does not happen, then it happens that the work can be misunderstood and distorted.
Surely the artist cannot prevent the viewer of his work from seeing things that he did not want to say, but there is a way of looking and listening.
In this era of post truths, fake news, and compulsive and derogatory answers that every day are thrown into social networks, are we sure we are trained enough to listen, to the look and to the dimension of silence?
I think not, or not enough, because it is tiring, more tiring than any story can ever tell us.
Can you tell us about your “Il filo dell’imperfetto”(The Thread of the Imperfect) series? These are works from about ten years ago. How has your work changed since then?
Imperfection is what makes us unique, exclusive and above all allows us to reflect on ourselves, starting from that breaking point that makes us imperfect.
In that series I metaphorically mended the wounds of other people.
I met, talked and shared a pain with the subjects I portrayed in this series and through their experience, we have completed together a path of healing.
The scars have therefore become lace, precious darning that unravels on the skin/canvas and shows itself fearlessly to the viewer’s gaze.
The thread reminds us that pain can be transformed and that beauty is hidden within a complex and invisible process of crossing lived deeply, to the end.
The thread mends and teaches waiting.
It is not easy to listen and be crossed by the pain of others, I remember that after the interviews I needed time to decompression because some stories were really very strong, but when I started to embroider those wounds, I felt that I was transforming myself, I was identifying myself and at the same time I detached myself so as not to be crushed by all that responsibility to feel like the guardian of a pain of others.
When they tell me that my works are painful and distressing, I answer that they do not speak of pain, but of healing and if one sees pain in them, it means that he must himself heal from something that he has not been able to overcome until the end.
Today my work is following a different direction, I try to leave more and more space to the invisible.
That’s why I’m interested in the back of the canvas, the writing, sometimes the performance and I’m eliminating more and more the color.
What are you working on right now?
The last work I did was entitled “Sühne” for the exhibition “Segrete, tracce di Memoria” curated by Virginia Monteverde at the prisons of Palazzo Ducale in Genoa, in which I hand-embroidered 250 cm of writing on an antique sheet.
The embroidery I made is partly the result of a performance I gave in Casermarcheologica for three consecutive weeks, in which every day I went for about three hours to embroider pieces of diaries of people dear to me.
At the end of the three weeks I had embroidered 150 cm of fabric, practically 10 cm a day.
I wanted to dedicate this work to Etty Hillesum, who in the two years before moving to Auschwitz concentration camp, managed to write a diary of profoundly intense beauty.
It is a diary in which Etty, manages to narrate herself so as not to let her be taken away even her most human, intimate and profound part, increasingly cancelled every day by the devastation of what she lived in imprisonment as a deportee.
A hymn to life, which teaches us how important it is to defend the invisible of the things that are in us.
For further information: https://www.ilariamargutti.com/works/suhne/
Can you tell us about the “Casermarcheological” project? How was it born and how is it developing?
This is a story that I live like one of my weavings, but it is happening in a place that is made of people, relationships, friendships, art and territory.
CasermArcheologica and is a process of urban regeneration that began in 2013.
It is an abandoned place in the middle of the historic center of Sansepolcro next to the Civic Museum in which is preserved the Resurrection of Piero della Francesca, a sixteenth-century palace belonged to a noble family “biturgense”, now completely disappeared.
Together with some of my students of the time, we spent the Easter holidays cleaning the halls of the palace from dust and rubble.
Since then I have not been able to leave that building and, in 2016, thanks to the professional contribution of my colleague and friend Laura Caruso, we won the Bando Culturability, funded by the Unipolis Foundation, which allowed us to continue to carry on this beautiful energy that had developed spontaneously, from below, by citizens, people and my young students.
Today Casermarcheologica is:
- the first exhibition and workshop space in Valtiberina dedicated to the languages of contemporary arts, through co-creation paths shared with artists, young people and cultural professionals of the territory, in continuous exchange with the citizens.
- A co-working, dedicated to young professionals who can have a workplace in a context of collaboration and project support.
- Training, continuous and permanent, to introduce new skills and to promote a fruitful exchange of knowledge.
In this context, Casermarcheologica has been selected among the various realities of regeneration of the internal areas of the Apennines by Mario Cucinella, within the Italian Archipelago, for the sixteenth Biennale of Architecture in Venice in the Italian Pavilion. A very important goal for us, because it shows us that the direction we have taken is the right one.
I like to think that this project is very similar to my work as a textile artist, because even Caserma is held together by a thread that intertwines with time, life, people and the narrative.