INTERVISTA di Elisabetta Brunella
INTERVISTA di Elisabetta Brunella a ILARIA MARGUTTI per la Mostra Le stelle di Miss Leavitt presso il Castello di Susa, dal 13 agosto al 7 ottobre 2023, a cura di Barbara Pavan in occasione del 50esimo anniversario dell’Associazione Astrofili Segusini e in collaborazione con il Comune di Susa.
Una mostra d’arte per celebrare cinquant’anni di passione per l’astronomia: questa la scelta dell’Associazione Astrofili Segusini che il 12 agosto ha presentato “Le stelle di Miss Leavitt“, una serie di opere ispirate ad un’astronoma tanto importante per la conoscenza dell’universo quanto misconosciuta in vita. Una scelta che può sembrare insolita, ma di certo non casuale, che trova la sua ragione nell’incontro con Ilaria Margutti, anche lei un’artista piuttosto “insolita” sulla scena italiana.
Margutti non disegna né dipinge, non scolpisce né incide: Margutti ricama. È una “fiber artist” o, se preferiamo, un’esponente dell’arte morbida*, che affonda le sue radici in saperi antichi e tradizionali come il cucito, la tessitura o appunto il ricamo, per ricavarne un linguaggio creativo e concettuale, liberato dalla funzione utilitaristica o puramente decorativa.
Ma in Margutti questo linguaggio assume una valenza in più. Ne parliamo con lei.
Come hai scelto la tua tecnica espressiva? Come sei arrivata al ricamo?
Ho avuto una formazione accademica, basata sul disegno e sulla grafica, ma nel 2007 nel mio percorso creativo c’è stata una svolta grazie all’incontro con Rosalba Pepi, una ricamatrice non solo espertissima, ma sensibile alle potenzialità artistiche del ricamo. È stata per un anno la mia maestra e mi ha fatto riscoprire una pratica che avevo sfiorato in famiglia, grazie alla nonna e alla mamma, ma che non avevo coltivato perché mi sembrava il simbolo della clausura femminile. Rosalba mi ha condotto per mano e mi ha svelato la tecnica, ma soprattutto il linguaggio e il simbolismo del filo e del gesto della mano.
Ho abbandonato i pennelli perché mi si è aperta una realtà nuova: la stessa tela sulla cui superficie si possono dipingere immagini bidimensionali, grazie all’ago e al filo che continuano a passare da un lato all’altro, crea spazi nuovi, tridimensionali.
È stata una scoperta e al tempo stesso una riconciliazione con la tradizione familiare, e più in generale italiana, che ha sempre attribuito un gran valore al ricamo, al pizzo e al merletto?
Sì, di quella stessa pratica che mi era sembrata un limite alla piena realizzazione della donna, ho visto le potenzialità: dell’universo femminile il ricamo sa rendere visibile la capacità di ricucire ferite, la ciclicità dei ritmi vitali, la generatività stessa.
Ricamare per me significa indagare il rapporto tra l’essere umano e la natura fino all’essenza della materia e all’universo, la cui parte visibile è così ridotta rispetto alla realtà sottesa.
Applicando alla tela i punti della tradizione – il nodino francese, il punto stuoia, quello piatto … – ho colto appieno il significato di quella frase di J.D. Barrow che mi aveva sempre colpito:
“La natura è un bellissimo arazzo, del quale noi possiamo vedere solo il retro e, osservandone i fili lenti, proviamo a cercare di capire il disegno che sta davanti”. Quando ricamo – anche sperimentando punti e forme innovative – controllo razionalmente quello che avviene sopra la tela, ma intanto si forma un’altra realtà sul retro, che sfugge alla mia volontà. In natura, noi esseri umani non abbiamo la comprensione del disegno compiuto. Dobbiamo cercare di ricostruirlo orientandoci in uno scenario confuso.
Dalle tue parole sembra già di intravedere il passo successivo: la scelta di rappresentare non solo le stelle che Miss Leavitt studiava, ma il metodo con cui questa scienziata procedeva nell’indagine scientifica in un’epoca priva degli strumenti di calcolo odierni e in una società che affidava alle donne compiti manuali e ripetitivi.
È così: il gesto del ricamo avviene a mano, nella lentezza, nella regolarità, nella precisione con l’obiettivo di raggiungere l’ordine e la bellezza, quello che in greco si chiama appunto cosmos.
Su una faccia della tela c’è la bellezza, l’estetica, sul retro il collegamento tra un punto e l’altro, che forma una struttura inaspettata e per questo poetica.
Henrietta, nei suoi quaderni, allineava a mano, con un ordine rigoroso, i dati che ricavava dall’osservazione e dal confronto di quelle che erano le prime fotografie di stelle nella storia dell’uomo. Per ognuna di esse annotava la posizione in una griglia che sovrapponeva all’immagine e rilevava il momento della massima e della minima luminosità.
Da questi dati è scaturita una trama fino ad allora nascosta: la ciclicità della variazione della luminosità.
Miss Leavitt oggi è considerata una grande astronoma, allora era una specie di “amanuense del cielo”: osservava non direttamente i corpi celesti, ma le lastre fotografiche e nell’universo affondava le dita che annotavano, registravano, calcolavano.
E arriviamo così al cuore di questa mostra. A Susa esporrai per la prima volta cinque grandi tele, in cui hai ricamato stelle e galassie e anche mani che le toccano, con un significato che ora ci appare del tutto chiaro. Ma perché queste opere, diverse tra loro, hanno lo stesso titolo?
Non lavoro mai per tele singole, perché intendo il mio procedere come una ricerca su ciò che accade, che deve essere colto in momenti e sotto angolature differenti.
A Susa ci saranno tre tele a fondo chiaro, dove le stelle sono state ricamate in nero come sui negativi fotografici di Miss Leavitt. Due invece sono realizzate su un cotone tinto a mano, scuro come la notte in cui spicca la brillantezza delle stelle di cui Henrietta indagò la variabilità aprendo la strada agli studi che ci avrebbero dimostrato che la Via Lattea non è l’unica galassia. Uno di questi tessuti scuri ha una trama poco fitta, che ben rivela il disegno sul retro e ci riporta alla riflessione di J.D. Barrow.
Anche se in altri casi ho usato la macchina per cucire, questa volta ho realizzato tutto a mano, proprio per calarmi nei ritmi di lavoro di Miss Leavitt. È stato necessario un grandissimo impegno, anche in termini di tempo, per completare questo corpus di opere che sarà presentato a Susa: la quinta tela ha richiesto un anno di lavoro. Ma non mi fermerò qui: il mio obiettivo è arrivare a sette, un numero che ricorda le 1.777 stelle variabili nelle Nubi di Magellano studiate da Miss Leavitt.
Anni fa in una sala del vecchio Museo del Cairo, defilata rispetto al Tesoro della celeberrima tomba di Tutankhamon, vidi un semplice camicino di lino destinato al figlio del Faraone. Mi colpirono il perfetto stato di conservazione e la precisione dei minuscoli punti delle cuciture laterali che sono riusciti a testimoniare nei millenni l’abilità di una donna, probabilmente una schiava, rimasta senza nome. Oggi l’ago e il filo di Ilaria Margutti fanno emergere una grande scienziata dalla zona d’ombra in cui le convenzioni della sua epoca l’avevano relegata ed insieme riscattano idealmente il lavoro e la perizia di innumerevoli e sconosciute ricamatrici.
Elisabetta Brunella