Interview by Lucia Lo Cascio

Ilaria, spiegami cosa rappresenta per te l’arte e il tuo modo di vivere/convivere con essa.
Esiste un momento nella vita di alcuni, in cui nasce l’urgenza di comprendere se stessi in relazione al mondo che lo circonda, sia esso interno o esterno. Quando l’urgenza personale per risolversi e capirsi viene superata, allora si può iniziare a parlare di Arte. Essa diventa così, un modo per donare al mondo un mezzo di comprensione. Qualche tempo fa, un mio alunno durante una delle mie lezioni tenute di fronte alle opere del Museo Civico di Sansepolcro, mi disse : “l’Arte non è espressione del talento umano, ma del talento della Natura, in quanto l’Artista restituisce il Dono della Natura, alla Natura stessa”. Credo che questa frase riassuma perfettamente il concetto che ho dell’arte.
Personalmente penso l’arte sia un catalizzatore della vita, un canale d’indagine, sia per l’ artista, che per il fruitore; é un mezzo indispensabile per la conoscenza e la consapevolezza del proprio evolversi nel mondo.

Il tuo mondo espressivo è molto legato al femminile, rappresenti spesso donne nell’atto di autocucirsi, quasi a voler richiudere una ferita aperta ormai da secoli. Mi sbaglio? Come ti poni rispetto alle problematiche del femminile?
La ferita è una metafora. Oggi, può rappresentare tutte le ferite del mondo, mie, di altre donne, o altre persone, anche se son state proprio ferite personali il punto di partenza del mio percorso. C’è sempre un inizio dovuto da una contingenza biografica dalla quale nasce “l’urgenza”, poi si sfoca, perde consistenza e allo stesso tempo si amplifica, diventa assoluta, universale, slegandosi da me o dal singolo soggetto. Questo avviene perchè ad un certo punto del mio cercarmi, sento che quella stessa “urgenza” non mi appartiene più, si distacca, come se fosse uscita fuori da me, diventa altro, ed è lì il momento in cui sento che inizia la vera ricerca. Le mie prime opere sull’autocucirsi, risalgono al 2008, è una fase iniziale dei miei lavori dove rappresentavo donne nell’atto di cucire il proprio corpo, ricamavano i confini della pelle per definire la propria identità, non c’era ferita, c’era però il limite di se stesse che doveva emergere alla coscienza tramite l’azione. Vediamo l’ago, ma non c’è dolore, perché appare la stessa cura che una ricamatrice impiega per eseguire il proprio lavoro. Successivamente con il progetto di “Il filo dell’Imperfetto”, ho dedicato una serie di lavori alle cicatrici sulla pelle, che avevano lasciato un segno indelebile sul vissuto personale. In quei ritratti, ho chiesto ai miei soggetti di raccontarmi la loro storia, li ho fotografati nelle pose in cui, dialogando con se stessi, “richiudevano” metaforicamente la propria ferita e donandola al mondo, si liberavano di quel peso, come fosse una seconda guarigione, quella definitiva. Io non ho fatto altro che portare a conclusione il loro gesto, rammendando la tela, come fosse pelle.
Finora il ricamo è stato inteso e utilizzato come espressività creativa o tecnica artigianale, mentre il gesto che rappresento tramite queste figure, vuol trasformare il ricamo in un linguaggio e quindi un mezzo per fare Arte.
Ricamare solitamente, nel suo fare antico, è associato alle sole donne. Un tempo era il modo per riunirsi, narrare, tramandare le tradizioni e prendersi cura dei propri figli; molta della letteratura femminile parte proprio da questo tipo di aggregazione, la quale frequentemente, veniva utilizzata per imparare a leggere e scrivere di nascosto dalla volontà maschile.
Rappresento spesso figure di donne, ma non mi riferisco unicamente alla problematica del femminile, piuttosto credo che ci siano delle problematiche umane, anche se tutto è partito da una mia esigenza personale di indagine interiore, quindi dal mio essere donna, mi rivolgo all’umano in generale, alla relazione con se stessi e con l’altro. Ad un artista uomo non viene mai chiesto se stia trattando una problematica maschile. La problematica femminile dovrebbe riguardare anche l’uomo e se esiste, è proprio questa: il dover essere riconosciuta in quanto donna e non in quanto essere umano. Nessuna evoluzione, artistica, filosofica o scientifica è stata finora maschile, anche se è stata portata avanti da molti più uomini che donne. Sul tema del “maschile/femminile”, sto lavorando ad un progetto assieme a Samuele Papiro, un altro artista che da sempre ha a cuore il concetto di identità e relazione.

Rispetto alla mia personale visione delle cose, intendo l’arte come un’atto d’amore, è questo che mi ha colpito nelle tue opere. Rappresentano, oserei dire, un vero e proprio parto con un lungo periodo di gestazione, dovuto anche alla tecnica da te utilizzata. Parlaci di questo tua antica quanto originale tecnica rappresentativa.
Il ricamo è una forma di tessitura e quest’ultima ha un’origine antichissima, il poter tessere ci ha reso umani. E’ un’insieme di discipline e tecniche che derivano dall’uso della ragione e dell’ingegno (basti pensare alla complessità di progettare e realizzare il filo, il telaio e quindi la trama e l’ordito) uniti dalla necessità di coprirsi e dalla creatività dei decori. In fin dei conti il tessuto è il mezzo tramite il quale abbiamo fabbricato la nostra prima difesa, prendendoci cura di noi.
Per quanto riguarda il mio percorso, sono approdata al ricamo abbandonando la pittura, perchè sentivo che dovevo superarla, staccarmi dalla sua bidimensionalità che percepivo come un limite. L’incontro con una ricamatrice, diventata poi la mia maestra di ricamo, mi ha permesso di scoprire il fascino del filo, il suo rilievo e la sua luce, ma anche la possibilità di liberare la tela, facendola tornare ad essere tessuto. L’esperienza del ricamare, ha una fase di realizzazione completamente opposta a quella pittorica, quest’ultima infatti, permette di avere sempre una visione totale dell’immagine riportata sulla tela, cosa che con il ricamo non è possibile, in quanto il lavoro viene eseguito poco per volta, avanzando il disegno sullo spazio di un telaio di 25/30 cm di diametro. La visione dell’intero, sarà dunque sempre parziale e incompleta, ma questo permette di acquisire altri vantaggi: ho la possibilità di estraniarmi perdendomi nelle particolari sfumature del filo e nelle sue forme in quei pochi cm quadrati di superficie.

Un’altro aspetto che trapela dalle tue opere è che queste donne trasmettono serenità, i loro sguardi sono come uno specchio emotivo che ci spingono a riflettere sui nostri archetipi.
Si, infatti è proprio questo il concetto che vorrei potesse passare difronte alle mie opere. Il gesto che le mie figure compiono, è quello del “dono”, sono le custodi di un segreto, non hanno avuto paura di affrontarsi, per questo non hanno espressione di dolore, nonostante il contrasto. Penso alle mie figure femminili come delle Korai greche, proiettate verso il distacco razionale del controllo di loro stesse.

In una sua intervista Marina Abramovic dichiarò che il pubblico poteva ucciderla. Frase ambigua e ambivalente, in quanto non si capisce bene se questo potere estremo è dello spettatore stesso o è in realtà il suo ( “io, creatore, conferisco a te la facoltà di uccidermi … ). Cosa ne pensi? Qual’è il tuo rapporto con l’altro che si pone in contatto con le tue opere?
Marina Abramovic pone se stessa difronte all’altro con l’assunto di avere un controllo maggiore nella relazione, propone all’altro la possibilità di dimostrare la propria parte istintuale, animale, dimostrando di essere superiore a quell’impulso. Si eleva attraverso il superamento del limite e dell’istinto. Ci ha dimostrato che è possibile mantenere il controllo attraverso la propria consapevolezza e ancor prima di Marina Abramovic, questo ce l’ha dimostrato Gina Pane. La mia connessione con l’altro inizia prima che l’opera venga esposta, in quanto molti dei miei lavori, partono dalla relazione con il soggetto che scelgo di ritrarre, il quale si mette in gioco donandomi sia la sua storia che la sua fisicità. Propongo a queste persone di parlarmi del loro concetto di perdita, di trauma, segreto .. per poi utilizzare queste informazioni e realizzare i loro ritratti, ricamandoli. Il tessuto diventa la loro pelle che ricamo e rammendo. Un modo di prendermi cura di ciò che mi confidano, senza dimostrare il superamento del mio limite con “l’utilizzo” dell’altro, ma in funzione della corrispondenza che si crea.

Ho citato una delle più grandi esponenti della Body Art non a caso, vedo infatti, nella tua ricerca un legame con tale corrente artistica, un proseguimento rispetto a quel mondo. La body Art, come le tue opere, si apre alla collettività attraverso l’uso del corpo. Entrambi, a mio avviso, cercate di compiere un gesto salvifico, c’è un tentativo di sublimare le sofferenze umane attraverso l’arte, liberando l’uomo dal proprio percorso di sofferenza. Cosa ne pensi?
Sicuramente nei miei lavori, c’è la sublimazione della sofferenza, ma penso che a vari livelli, sia un pò il tentativo di ogni artista, altrimenti non ci sarebbe bisogno dell’Arte. La Body Art utilizzava/dissacrava e a volte scarnificava il corpo, in quanto è un movimento artistico nato anche come risposta alla rivoluzione sessuale degli anni ‘70, un modo per rendere consapevole “l’altro” dell’esperienza corporea, soprattutto quella femminile. Oggi ancora si necessita di parlare del corpo, ma non nello stesso modo utilizzato dalla Body-Art, al contrario penso sia un altro il percorso da seguire, anche Abramovic ha cambiato metodo. Credo che la consapevolezza fisica, non debba più passare attraverso l’oltraggio, il grido o l’esibirsi per dimostrarsi presenti nel qui e ora, ma ci sia bisogno di una guarigione da tutte quelle ferite inflitte, ecco perché penso al tessuto come metafora della pelle. Mi voglio prendere cura di ciò che ho capito di quel corpo “sacrificato”, attraverso il gesto del ricamare. La stessa Gina Pane abbandona la Body Art per raggiungere una sorta di elevazione spirituale, proprio fosse una guarigione, infatti gli ultimi suoi lavori sono Sindoni che portano le tracce delle sue ferite. Io parto da qui.

 

Lucia Lo Cascio