Il filo per uscire dal labirinto
Fu una donna, Arianna, a dare a Teseo il filo per uscire dal labirinto
di Flavia Lanza
“Il gesto del “donare”, dell’”offrirsi” è un gesto della natura femminea. L’attesa, il costante e laborioso tessere, è la forza
della lucidità del tempo, che scorre senza apparenti cambiamenti, ma che nel suo divenire dipana esistenze (Ilaria Margutti)”.
Un gesto d’amore, quello di Ilaria Margutti. Il gesto di una donna che “tesse” relazioni con la sua anima, i suoi affetti, tra le vicende più importanti della sua vita e che ha il significato del prendersi cura di qualcosa, dell’impreziosirla attraverso un lungo lavoro meditativo e manuale, di voler prendersi cura di sé. Un gesto che ci invita a entrare in simbiosi con la sua esistenza, a
intrecciarla con la nostra, per crearne di nuove. Le sue opere sono pagine di un diario intimo, personale – come quello ricamato nel libro Catalogo inutile di esistenze tattili, quello presente nella bacheca Useless box, con le sue scatoline di metallo contenenti “brividi”, “difese”, “torpori”, “paure”, quello di Predizioni, il suo ultimo lavoro video – o appartenente ad altre donne – come nelle sindoni di E corpore medendo -.
Il percorso artistico di Ilaria è in mostra, fino al prossimo 20 luglio, presso lo Spazio espositivo di Palazzo Pretorio a Barberino di Mugello con la personale “Il filo di Ananke. Scritto sulla pelle”. La mostra fortemente voluta dall’Amministrazione comunale di Barberino, curata da Manuela Bacchiega e con testo critico in catalogo, di Lucrezia Naglieri e Lara Carbonara, offrirà l’occasione ai visitatori, mugellani e fiorentini, di conoscere un percorso di maturazione artistica coraggioso e autentico.
“Tessere, ricamare, rammendare, cucire sono tutte ‘azioni’ simbolicamente legate alla ‘creazione’, al generare della vita
dall’attesa. L’ago diviene strumento della ‘creazione’. “L’ago è un medium, un mistero, una realtà, un ermafrodita, un barometro, un momento, e uno zen: non lascia tracce e alla fine scompare. L’unica traccia è la connessione che ha realizzato” (Kim Sooja). È pungente, serve a ferire, come pure a ricucire, chiudere, rammendare, ricostruire le linee della propria esistenza.
Le mani tastano la pelle, ne riconoscono gli orli, ne imprimono i solchi, ne rammendano le pieghe. Donne instancabili compongono e definiscono le loro forme, percorrono cavità e sporgenze, attraversano bocca e ciglia, ginocchia e ombelichi, seni e unghie.
L’artista non rimargina, ma attraversa le fratture della carne per trasfigurare le sue tele in uno ‘stare presso di sé’, una cicatrice in cui rinchiudersi e avere pace. Il confine è la pelle. Quella cerniera labile e sottile fra interno ed esterno.”
(Tratto dal testo critico di Lucrezia Naglieri e Lara Carbonara.)
F come Filo
filo s. m. [lat. fīlum] 1. a. (tess.) [prodotto della filatura di una fibra: f. per imbastire; calze di f.] ≈ b. (fig.) [al plur. Femm., le fila, elementi costitutivi: scoprire le f. d’una congiura] ≈ trama. Per indicare continuità: il f. della vita, nelle locuz. letter. tessere, troncare, rompere, tagliare il filo della vita, detto soprattutto delle Parche; lo sviluppo coerente e la connessione logica dei concetti, in frasi del tipo seguire il f. delle idee, perdere, trovare, ritrovare il f. del discorso, del ragionamento; il f.della storia; con altro uso fig., al sing. masch. (talora con allusione più o meno cosciente al filo dato da Arianna a Teseo perché potesse uscire dal labirinto dopo l’uccisione del Minotauro), elemento di guida, di orientamento: avere, seguire un f. conduttore nelle indagini.
“Il filo appartiene al linguaggio di Ilaria Margutti a partire dal 2007. Dalla pittura al ricamo, in un processo inverso rispetto a quello che leggiamo nelle pagine della storia dell’arte al femminile. Un recupero a cui Ilaria si avvicina con consapevolezza, cercando (e trovando) conferma nel pensiero di altre artiste come Louise Bourgeois, Maria Lai, Gina Pane… alcune delle quali hanno sperimentato la pratica artistica come strumento di conoscenza, atto liberatorio, indagine del vissuto, ricerca d’identità e anche urlo di ribellione. (Adriana M. Soldini)”.
“Il fare del ricamo, che è un fare completamente femminile, che proviene proprio dall’identità femminile, dal sapersi prendere cura, del tessuto ma anche del focolare – racconta Ilaria -. Un fare che io riprendo e rendo linguaggio: il ricamo diventa per me un mezzo con cui posso esprimermi con la mia identità femminile, che non è quella della pittura o della scultura, ma che ha proprio a che fare con l’origine della creatività femminile che passa attraverso il filo“.
Filo reale, materiale e filo immaginario, metaforico, che si fa trama, genera forme, diventa narrazione: filo che manifesta in sé una straordinaria universalità e che non può non passare attraverso la dimensione del mito – mito s. m. [dal gr. mŷthos] “parola, discorso, racconto, favola, leggenda”] ma anche [dal gr. mítos] “filo, stame, catena” – dal filo di Arianna alla tela di Aracne, dalla corda di Ananke alle abilità tessili di Atena, dalle Moire, che filano e reggono e tagliano i fili del destino dei mortali, a Penelope, simbolo della fedeltà coniugale.
#Riflettere sull’immagine del filo come principio di ordinamento della realtà: il filo è caos fatto ordine, groviglio che trova struttura, linea che esce dal labirinto. Riflettere sul significato del reggere un filo: per ricamare, filare pensieri, tessere rapporti.#
P come Pelle
pelle /’pɛl:e/ s. f. [lat. pellis]. – 1. [strato di rivestimento esterno del corpo dell’uomo] ≈ (scherz.) buccia, Ⓣ (anat.) cute, (fam.) scorza. ⇓ Ⓣ (anat.) derma, Ⓣ (anat.) epidermide.
“Fra tutti i sensi, il tatto. E del suo corpo, la pelle. È sulla pelle che Ilaria Margutti si analizza e si sperimenta. Pelle, l’esterno della casa in cui l’anima abita: il corpo. È l’ultima frontiera dell’essere a diretto contatto con il mondo e la prima linea di difesa dell’organismo contro le aggressioni esterne. Epidermide, derma, ipoderma proteggono l’interno vulnerabile fatto di muscoli, ossa, organi interni, vasi sanguigni.
Strati su strati di tessuti dallo spessore differente a seconda delle zone, a cui lei aggiunge uno strato in più: la garza. La garza cura e permette la realizzazione della mappatura delle sue esperienze che il ricamo evidenzia, il rammendo rafforza, la larga trama fa defluire attraverso i pori all’interno del suo corpo per rafforzarne l’identità.
Sul disegno naturale della pelle, in un susseguirsi di solchi-rilievi-pieghe, Ilaria va a inserire rondelle metalliche dal contorno dentato, piccoli ingranaggi della sua storia che si snoda sull’uso sapiente del filo introdotto dall’ago senza più remora. Non solo. Si permette di costruire staccionate di spilli e azzardare l’inserzione di spine, che paiono fungere da scaglie difensive come quelle dei pesci e dei rettili. In punti precisi, sparge rametti di semi di papavero dal potere anestetico per ridurre la sensibilità oltre il livello di guardia. Sono i lembi estremi non ancora raggiunti dalla gestione del dolore, che ha imparato nel tempo senza dover narcotizzare le sue terminazioni nervose (Adriana M. Soldini)”.
C come Cicatrice
cicatrice s. f. [dal lat. cicatrix -icis]. – 1. (med.) a. [tessuto di guarigione su ferite e lesioni di tessuti sia animali sia vegetali]. b. [segno che rimane sulla pelle nel luogo di una ferita rimarginata: una c. gli tagliava il sopracciglio] ≈ ǁ‖ ferita, squarcio, taglio. 2. (fig.) [traccia lasciata nell’animo da un’esperienza dolorosa] ≈ ferita, lacerazione, marchio, segno.
Il segno di una cicatrice resta sul corpo per sempre, ma senza la memoria del taglio, che passa attraverso il dolore, diviene una sorta di pagina scritta in una lingua incomprensibile. Ilaria Margutti sa che i ricami sulle tele sono le ferite dei teli e dei corpi. Ferite che ci costringono ad altri movimenti, altre azioni, ad altre scoperte di sé. Non un ricamo inteso come guarigione, ma come un’altra possibilità. Così come nella perdita. La mancanza di una persona è un’altra persona. La mancanza di un corpo è un altro corpo. La tela è: liberarsi dalla perdita per essere perdita. Sottrarre se stessi per tornare a essere complessi. Ma senza l’edificazione di una propria identità: fuori dalla parola nella parola; fuori dalla pelle nella pelle; fuori dalla voce nella voce. “La tela è un crepaccio. E il crepaccio è la distanza che non ci cuce, il labbro tagliato in origine che nessun filo può suturare. Le parole che attraversano i nostri corpi sono quei fili che non cuciono, le parole sono la pelle con i suoi segni. Non il Compiuto, ma la metamorfosi è il taglio – che è già nella ferita prima della ferita” (Viviana Siviero).