E corpore Medendo di Manuela De Leonardis

Per Ilaria

Sansepolcro (Arezzo), 8 luglio/ Roma, 6 settembre 2012.

Una miriade di informazioni si sovrappongono nello sguardo dell’osservatore che entra nello studio di Ilaria Margutti. Pennelli, tele ricamate con il filo sospeso e l’ago infilzato, rotoli di gommapiuma, cacciaviti, spatole, telai tondi da ricamo di varie dimensioni, in un angolo – vicino alla grande portafinestra – anche la bacheca con le sue scatoline di metallo (Useless box) che contengono “brividi”, “lacrime”, “difese”, “torpori”, “paure”… e altro ancora.

E’ il concetto della catalogazione in cui più si archivia, e si mette da parte, più le cose perdono senso.” – spiega l’artista –“E’ così sia attraverso i libri, in cui archivio esistenze, sia attraverso la bacheca dove conservo sensazioni, emozioni e paure. Un archivio infinito.”.

Ma sono quelle due sedie di legno con i braccioli, un po’ datate, che attirano più di ogni altro oggetto. Una delle due ha apparentemente mantenuto il suo status di oggetto del quotidiano, l’altra – invece – è avvolta da un filo bianco, protettivo come una ragnatela.

Questa sedia è nata dal mio primo percorso – ‘il filo dell’imperfetto’ – un lavoro sulle cicatrici. Per me è il luogo del rammendo, dove mi siedo e ricamo. E’ anche quello in cui i fili mi si intrecciano. Di solito la lego al muro o la intreccio in base allo spazio. Posso usare una sedia o tutte e due insieme. E’ la traccia che lascio di me.”.

Una sedia che assurge a simbolo – quindi – metaforica rete di connessioni tra l’artista e il pubblico, l’interno e l’esterno, il passato e il presente.

Il filo appartiene al linguaggio di Margutti a partire dal 2007. Dalla pittura al ricamo, in un processo inverso rispetto a quello che leggiamo nelle pagine della storia dell’arte al femminile (colgo l’occasione per citare il saggio di Franca Zoccoli Dall’ago al pennello, 1987).

Un recupero a cui Ilaria Margutti si avvicina con consapevolezza, cercando (e trovando) conferma nel pensiero di altre artiste come Louise Bourgeois, Maria Lai, Gina Pane… alcune delle quali hanno sperimentato la pratica artistica come strumento di conoscenza, atto liberatorio, indagine del vissuto, ricercad’identità e anche urlo di ribellione.

Nei suoi ricami, in fondo, c’è un po’ di tutto questo. Sono pagine di un diario intimo, che può essere personale (Catalogo inutile di esistenze: i segni) o appartenere ad altre donne (E corpore medendo (sindoni)). Certamente dà voce a emozioni e sentimenti che ci appartengono.

E sono lavori lenti, perché usare l’ago e il filo richiede tempi diluiti, anacronistici probabilmente se contestualizzati allo scorrere convulsivo e aritmico dei nostri giorni.

L’atto in sé, il gesto ripetuto – fondamentale quanto l’idea – implica una possibilità taumaturgica. Per l’osservatore è uno stimolo a riflettere, per l’artista anche una sorta di “Om”.