Infiniti Fili di Sergio Gabriele
L’impuntura di Ilaria Margutti è profonda e implacabile, sortisce da una apparente osservazione aliena, distaccata, amorfa, così come vuole da noi il mondo, poco implicati, e poi si infligge sul petto del tessuto, là dove in genere si appuntano le medaglie, o meglio i suoi cimiteri di croci, costruendo la propria verità, il proprio j’accuse, trovando alfine il tempo anche per una tessitura della memoria intesa come ricordo.
Il ricordo, seppur presente in maniera chiaramente codificata, non è il tema saliente dell’opera di Ilaria, bensì i fili, rimasugli del cucito che stanno lì ad inchiodare qualsiasi tentativo di giustificare l’offesa, del tempo, della memoria, della storia, di tutto quello che vogliamo. Devono restare lì come l’imbriglio dell’imbroglio, quella matassa che era così difficile da considerare perfino, ben oltre il reimbandolare stesso. Sono come una firma quietamente rabbiosa, la sfida a dirimere, togliere, cancellare il segno, già che la trama era stata concepita non come tabula rasa su cui intessere il futuro, ma come una garza per suturar ferite.
La trama di Ilaria riporta sempre all’ideogramma della fasciatura, il sudario, ancor meglio la sindone, nell’accezione originale di lenzuolo per avvolgere un corpo non più in vita. Ilaria svolge le bende più che per recuperare il maltolto, per marcare una presenza, di linguaggio, di vigilanza, di valenza storica oltre che alfabetica. La grafia è quella infantile, alba consacrata dell’uomo, le parole rimarcate sono quelle primigenie, essenziali, vitali che così tanta fatica dovevano costare per essere intese, quasi fosse impossibile parlare a quel corpo con il linguaggio della vita, ma solo tramite epitaffio, oltretutto vuoto come un’urna. E’ un gesto amorevole quello di Ilaria, che si compie al capezzale non solo del linguaggio, ma della fantasia, dell’arte, della creatività, della solidarietà creativa che sola doveva bastare.
Sono talmente stesi i fili come tracce indelebili che li ritroviamo anche nel resto della produzione di Ilaria, quella più iconograficamente riconoscibile, filamenti che fuoriescono, debordano dallo spazio gutemberg della cornice, invadono la memoria, a testimoniare la continuità fra la scoperta del nucleo, tipico di ogni azione artistica, e il suo non mollarlo, costringendolo ad una sua esplicazione cosmica oltre che storica.
Qualsiasi dettaglio, pur sapientemente inciso, liberato nel suo significato visivo e perfettamente autoportante dal punto di vista dell’indicazione, della proiezione, viene poi circoscritto e ulteriormente vivificato dal dedalo delle tracce, dal bozzolo che viene svolto in forma tessibile, perché conduca da qualche parte finalmente, Arianna ritrovata, e resti la promessa che ci sarà sempre qualcuno a vigilare sugli strappi, i furti, gli stropicciamenti, e pronto a rammendare e rammentare.
L’arte del cucito è rinomata per la sua pazienza di Penelope senziente che tesse e stesse, la sua calma e precisione di progetto, la capacità di visualizzarlo in anteprima, la garanzia del risultato, la forza, soprattutto la forza, perché con un filo estremamente sottile è possibile legare un bottone in modo tale che tirandolo piuttosto si lacera la tela ma lui, non viene via.
genn 2011 Femminart Review