Intervista di Gabriele Landi | Parola d’Artista
Intervista di Gabriele Landi a Ilaria Margutti per Parola d’Artista
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Ciao Ilaria, spesso gli artisti fanno ricorso alla mitica età dell’infanzia, prodiga di immagini e fantasticherie, per trovare l’origine del loro lavoro. Vale anche per te?
Penso che l’età dell’infanzia sia per tutti un periodo di vita creativa e immaginifica.
Quello che ci accade quando siamo bambini, è il momento più ricco di immaginazione e il gioco è ciò che ci allena alla vita.
Ho vissuto una infanzia molto serena e felice, ricca di fantasia, dove gli oggetti o gli avvenimenti quotidiani, si trasformavano in mondi fantastici dettati da regole estranee alla fisica che conosciamo.
Non disegnavo mai se mi veniva richiesto, o imposto, come accadeva all’asilo o a scuola, ( infatti ero una pessima allieva) ma solo quando non mi sentivo osservata.
Disegnavo sui muri di casa perché chiaramente era una cosa che non potevo fare.
Mia mamma attaccava dei grandi fogli sul muro per proteggerli dai miei attacchi creativi, ma io disegnavo i miei personaggi intorno al foglio o nei punti nascosti della casa, dietro ai mobili o intorno ai termosifoni.
Non so perchè lo facessi, ma credo che sia dovuto dalla mia indole di non volermi sentire messa alla prova da nessuno, un modo di ribellarmi e allo stesso tempo di creare il mio concetto di libertà.
Penso che ancora oggi sia presente nel mio lavoro questa componente.
Per me ricamare è una disciplina che crea spazio e pensiero, mi permette di concentrarmi intensamente tanto da estraniarmi nei miei mondi interiori e di perdermi in luoghi che non hanno confini.
A questo proposito, mi viene in mente che qualche anno fa, realizzai una serie di ricami che intitolai “esercizi di vastità”.
La pratica del ricamo è sicuramente una fra le più, passami il termine, abusate fra quelle che ormai sono identificate come le prassi del femminile nel panorama artistico della contemporaneità. Non avverti un rischio nel ricorrere a questa modalità espressiva?
Accolgo molto volentieri la tua provocazione.
Certamente non è “abusata” più di quanto la pittura e la scultura lo siano state per gli uomini, prima che le donne potessero iniziare a praticarle.
Se anche gli uomini ricamassero, non sarebbe più una tecnica praticata quasi esclusivamente dalle donne e quindi che rischio potrei mai correre?
La texileArt e tutte le tecniche che la riguardano, dal ricamo alla tessitura, sono dei mezzi, come ogni altra tecnica artistica, ciò che fa diventare una tecnica applicata un linguaggio artistico, sono i contenuti, le domande che l’opera ci fa porre, la profondità e la lealtà della propria ricerca.
Finalmente siamo in un’epoca nella quale si può fare ricerca artistica senza il limite della tecnica, sarebbe davvero brutto se ancora il ricamo continuasse ad essere una pratica esclusivamente femminile.
Del resto io come tutte le donne, siamo cresciute in una letteratura quasi sempre maschile, eppure continuiamo ad essere donne, potrebbe essere interessante che anche gli uomini si possano avvicinare a quella femminile, senza avere il timore di perdere la propria mascolinità.
Lo scambio è una ricchezza, o no?
Partendo dall’idea di allargamento a cui facevi cenno alla fine della prima risposta, come vivi le dimensioni di spazio e tempo nel tuo lavoro?
Il ricamo è una pratica che ha molto a che fare con il pensiero razionale, perchè certi punti hanno un ordine e una misura da rispettare in base all’effetto che si vuole ottenere.
Io non mi ritengo una ricamatrice, piuttosto sono più propensa a mettere a soqquadro le regole legate alla tecnica, ma per farlo, ho prima dovuto impararle.
Questo significa che ricamare comporta seguire una disciplina dettata dalla meticolosità e dall’attenzione quasi autistica per il dettaglio del filo e del punto, spesso non percepito dall’osservatore sul risultato dell’intero.
Dunque lo spazio si fa microscopico, perché si agisce sulla tela per una piccola porzione alla volta, ci si concentra sul filo, di come questo dialoga con la tela, sul gesto della mano che insegue un ritmo, ma anche sulla posizione del corpo, seduto con in braccio il telaio.
Tutto è ristretto, concentrato, come fosse chiuso verso l’interno.
Questa contrazione spaziale del corpo sulla tela però, genera una condizione di apertura al contrario: il tempo si dilata e si estende fino a sincronizzare il ritmo del gesto con il battito del cuore.
In questa costrizione, quasi una compressione dentro il corpo come luogo, il pensiero si estende, si perde tra le connessioni generate dal ritmo del gesto.
Personalmente, sento di entrare quasi in una dimensione meditativa che mi fa percepire lo spazio come luogo infinito e il tempo come una rete di eventi, di accadimenti interconnessi generati dal gesto e dall’ago che batte sul tessuto.
Ho la sensazione di sentire il mio corpo che si estende oltre la sua sede compressa ferma sulla sedia.
Per questo ho parlato di esercizi di vastità, proprio perchè essere vasti, significa percepirsi attraverso una disciplina nello stato più compresso, entrare nella complessità di ciò che si è.
A questo proposito, mi vengono in mente alcune connessioni con i temi trattati da Carlo Rovelli nei suoi libri sulla percezione e la misura del Tempo, e a molta letteratura femminile, penso ad Anais Nín o Etty Hillesum, giusto per citarne alcune.
Che significato ha per te l’autoritratto?
Ho una formazione accademica, per cui l’autoritratto è una parte fondamentale del percorso, insieme al disegno della modella dal vero.
Sicuramente io sono il soggetto che ho più a disposizione, quando diventa difficile trovare qualcuno che possa posare per me.
D’altro canto, l’autoritratto è una forma di conoscenza di se stessi e di come ci si approccia alla vita, è un progredire assieme a ciò che si realizza.
Rembrandt documentò il suo volto e le sue metamorfosi, lungo tutto il corso della sua vita, così come molti altri pittori.
Autoritrarsi è una forma di conoscenza, una registrazione dei propri cambiamenti, delle proprie identità e delle proprie incertezze, ma è anche un segnare i punti di arrivo e di consapevolezze raggiunte.
Autoritrarmi significa partire da me, mettersi in gioco, porsi domande prima di essere pronta a porle agli altri.
Lo so che spesso sono io il soggetto di molti dei miei ricami, ma perché non riesco a ritrarre una persona che non abbia avuto una storia da raccontarmi, non mi servono modelli, mi servono storie, metamorfosi e guarigioni, altrimenti sarebbe solo un esercizio di stile.
Le donne che ritraggo, ma anche gli uomini quando me ne danno la possibilità, mi hanno sempre donato un loro segreto, una loro fragilità, della quale semplicemente me ne prendo cura ricamandola, rammendandola.
Ho avuto in dono dei diari personali dai quali sono partita per fare delle opere. Questo aspetto autobiografico, mi affascina, mi fa sentire dentro le storie degli altri quasi come se, attraverso il lento processo del ricamo, potessimo insieme oltrepassare un limite.
Vicino a Sansepolcro, dove abito, c’è la sede dell’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano e il Piccolo Museo dei Diari ( se non lo conosci, ti suggerisco di venire a visitarlo)… un luogo magico, che raccoglie diari di persone comuni e che, attraverso il loro sguardo, la Storia assume una narrazione più complessa, fatta di risposte che la grande Storia non è in grado di darci.
Il dettaglio invisibile delle esistenze, si fa poesia e ci rende umani, vicino all’altro diverso da sé.
Quindi la pratica del ricamo é un modo che hai escogitato per tessere delle relazioni, una specie di metafora del racconto dell’esistenza delle persone che incontri e conosci attraverso il tuo lavoro?
Forse il termine “escogitato”, non trovo sia quello più corretto per definire la complessità di ciò che si tesse attraverso il filo.
Così come il ricamo non è lo strumento che uso per instaurare relazioni o approfondire incontri.
Le cose nascono da sole, sono fluide, a volte nascono da delle necessità reciproche, altre volte invece nascono per indicarci direzioni.
Non ricamo ogni persona che incontro, ma mi metto in ascolto di ciò che ho intorno e poi il resto viene da sé.
Sicuramente il fatto che io sia una insegnante di Liceo scientifico e abbia a che fare con tanti adolescenti e il fatto di essere anche responsabile ( assieme a Laura Caruso) di CasermArcheologica, mi permette di avere a che fare con piccole comunità di diverse generazioni e provenienze e tutto questo mio vissuto chiaramente influenza la mia ricerca artistica.
Sono tre ruoli che si intrecciano, a volte si sovrappongono, altre volte mi dividono, ma non saprei fare a meno di nessuno dei tre.
L’infanzia rappresenta per tutti un periodo di vita creativa e immaginifica. È un momento ricco di immaginazione, in cui il gioco diventa un allenamento alla vita. Nel mio caso, ho vissuto un’infanzia serena e felice, caratterizzata dalla fantasia. Gli oggetti e gli eventi quotidiani si trasformavano in mondi fantastici, dove le regole della fisica erano diverse da quelle che conosciamo. Tuttavia, non disegnavo mai su richiesta o sotto imposizione, come avveniva all’asilo o a scuola, infatti ero una pessima allieva. Disegnavo solo quando non mi sentivo osservata, e lo facevo sui muri di casa, dove chiaramente non avrei potuto. Mia madre attaccava dei grandi fogli sul muro per proteggere le pareti, ma io disegnavo i miei personaggi intorno al foglio o in posti nascosti della casa, come dietro i mobili o intorno ai termosifoni. Non so perché lo facessi, ma credo che fosse un modo per ribellarmi e, allo stesso tempo, creare il mio concetto di libertà. Ancora oggi, sento che questa componente è presente nel mio lavoro.
Il ricamo, per me, è una disciplina che genera spazio e pensiero. Mi permette di concentrarmi profondamente, tanto da estraniarmi nei miei mondi interiori e perdermi in luoghi senza confini. Qualche anno fa, ho realizzato una serie di ricami che ho intitolato “esercizi di vastità”.
Il ricamo è spesso associato alla pratica femminile, ma non lo considero più abusato di quanto lo siano state la pittura e la scultura per gli uomini. Se anche gli uomini ricamassero, non sarebbe più una tecnica esclusivamente femminile. Non vedo alcun rischio nell’utilizzare il ricamo come mezzo espressivo. In realtà, la texile art, dal ricamo alla tessitura, è un mezzo artistico come qualsiasi altra tecnica. Ciò che la trasforma in linguaggio artistico sono i contenuti, le domande che l’opera ci spinge a porre, la profondità e la lealtà della propria ricerca. Viviamo in un’epoca in cui è possibile fare ricerca artistica senza limiti tecnici. Sarebbe un peccato se il ricamo continuasse a essere una pratica esclusivamente femminile. Così come noi donne siamo cresciute in una letteratura prevalentemente maschile, potrebbe essere interessante vedere gli uomini avvicinarsi a quella femminile, senza il timore di perdere la propria mascolinità. Lo scambio è una ricchezza, non è vero?
Il ricamo è una pratica che richiede razionalità, poiché certi punti seguono un ordine e una misura specifica, in base all’effetto desiderato. Io non mi considero una ricamatrice nel senso tradizionale del termine. Sono più incline a rompere le regole legate alla tecnica, ma per farlo, ho dovuto prima impararle. Ricamare implica una disciplina che richiede attenzione meticolosa, quasi autistica, per i dettagli del filo e del punto, spesso impercettibili per l’osservatore. Lo spazio si riduce al microscopico, poiché si lavora sulla tela un piccolo frammento alla volta, concentrandosi sul filo, sul gesto della mano che segue un ritmo e sulla posizione del corpo, seduto con il telaio in grembo. Tutto si restringe, come se fosse chiuso verso l’interno.
Questa contrazione spaziale del corpo, tuttavia, genera un’apertura: il tempo si dilata e si sincronizza con il ritmo del gesto, in una sorta di meditazione. Il pensiero si estende, si perde nelle connessioni create dal ritmo del gesto. In questa costrizione corporea, sento il mio corpo espandersi oltre la sua posizione fisica. Gli “esercizi di vastità” si basano su questa idea: essere vasti significa percepirsi nella propria complessità, in uno stato di disciplina e compressione. Mi vengono in mente le riflessioni di Carlo Rovelli sul tempo e il suo significato, così come la letteratura femminile di autrici come Anaïs Nin o Etty Hillesum.
L’autoritratto ha un significato importante nella mia formazione accademica. Spesso sono io stessa il soggetto dei miei lavori, non solo perché sono il modello più a disposizione, ma anche perché l’autoritratto è un modo di conoscermi, di esplorare i miei cambiamenti e la mia evoluzione. È una forma di dialogo con me stessa, un mezzo per porre domande prima di rivolgerle agli altri. Il ritratto, per me, non è mai un semplice esercizio di stile. Mi serve una storia, una metamorfosi o una guarigione dietro ogni volto che ritraggo. Le donne e gli uomini che ho ritratto mi hanno sempre confidato un loro segreto, una fragilità che ricamo e rammendo con cura. Ho avuto anche il privilegio di ricevere diari personali da cui partire per creare delle opere. Questo processo autobiografico mi affascina, poiché mi permette di entrare nelle storie degli altri, oltrepassando un limite attraverso il ricamo lento e meditativo.
Vivo vicino a Sansepolcro, dove si trova l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano e il Piccolo Museo dei Diari, un luogo magico che raccoglie diari di persone comuni. Attraverso il loro sguardo, la storia assume una narrazione più complessa, fatta di risposte che la grande storia non può dare. Il dettaglio invisibile delle esistenze si trasforma in poesia, avvicinandoci all’altro.
La pratica del ricamo, tuttavia, non è qualcosa che ho “escogitato” per tessere relazioni. Le cose nascono spontaneamente. Non ricamo ogni persona che incontro, ma mi metto in ascolto di ciò che ho intorno, e il resto viene da sé. Essere insegnante di liceo e responsabile di CasermArcheologica mi porta a interagire con piccole comunità di diverse generazioni e provenienze, influenzando inevitabilmente la mia ricerca artistica. Questi ruoli si intrecciano, a volte si sovrappongono, altre volte mi dividono, ma non potrei fare a meno di nessuno di essi.